Presentato in anteprima europea durante la seconda giornata del Far East Film Festival, il festival del Cinema Orientale di Udine, giunto quest’anno alla sua ventunesima edizione, “Door Lock”, del sudcoreano Lee Kwon, è un thriller a tinte forti, che sfrutta la paura dell’invasione della propria intimità e della propria privacy e il tema della solitudine e dell’alienazione in una società tecnologica non così affidabile e protettiva come si crederebbe, come carboni ardenti per alimentare una storia in cui alla violenza psicologica si unisce ben presto anche quella fisica, nello sfuggire ad una minaccia invisibile, terrificante e difficile da scorgere, un’ombra sinistra che incombe sulla protagonista femminile.
La trama racconta di una donna, interpretata dall’attrice sudcoreana Kong Hyo-jin, che vive da sola in un appartamento di Seoul. Alla sua abitazione si accede inserendo un codice numerico. Oberata dal lavoro – fa del suo meglio per ottenere il posto fisso in banca – è restia a dedicarsi ad una relazione stabile con un uomo, nonostante il suo fascino la renda attraente agli occhi di diverse persone, tra cui il suo direttore e un cliente della banca che un giorno la molesta con domande inopportune, venendo poi allontanato.
Nella routine giornaliera casa-lavoro, la donna comincia ad accorgersi però di alcuni dettagli sospetti che riguardano la sua abitazione. Il codice del tastierino numerico ad esempio, risulta cambiato in un paio di occasioni, nonostante lei non lo abbia modificato. Questi dettagli, uniti ad una crescente paura verso uomini e figure che sembrano pedinarla e seguirla, mettono la ragazza in un stato di grande allarme, insicurezza e tensione, raggiungendo il culmine, quando una persona viene trovata morta nella sua stessa abitazione…
Come si diceva il thriller di Lee Kwon è forte, sia nelle tematiche, che visivamente, in un crescendo esponenziale che vedrà la donna protagonista confrontarsi con una mostruosità perfida, sadica e aberrante. La violenza descritta dal regista è palpabile, sebbene presente e volutamente d’impatto è tuttavia rappresentata con un certo stile, attraverso picchi improvvisi di suspance e di terrore, che indugiano sui particolari quanto basta per far venire la pelle d’oca e rendere partecipi dell’incubo di “silenziosa” prigionia in cui la vittima è stata coinvolta.
Lee Kwon attinge chiaramente al soggetto del conturbante thriller spagnolo “Bed time” di Jaume Balaguerò (già autore di Rec), con cui condivide alcuni punti nodali della trama. I due film, tuttavia, sebbene entrambi inquietanti e forti presentano numerose differenze. Se la pellicola di Balaguerò è cinica, provocatoria, volutamente disturbante nell’adottare la prospettiva del deprecabile persecutore, interpretato da un odioso (ed è voluto) ma bravissimo Luis Tosar, anzi che della vittima; il film del regista coreano mira a ricostruire la vicenda dal punto di vista della donna che subisce la violenza, rivelando solo alla fine il volto del colpevole, così come le perverse modalità di azione di quest’ultimo, che in Door Lock vengono però amplificate, tanto da assumere il carattere della serialità delittuosa.
L’effetto suspance, meno presente in Bed time, in cui più che altro è il colpevole a non doversi far prendere o scoprire nei suoi delitti, è perno fondamentale del film presentato al Far East Film Festival 21, una pellicola che, dal punto di vista del coinvolgimento, raggiunge decisamente alti livelli, anche perché permette l’immedesimazione nella vittima che cerca di sfuggire alla minaccia, elemento difficile se si pensa che protagonista di Bed Time è più che altro il criminale.
In “Door Lock” inoltre il possesso carnale è meno enfatizzato dalla regia, mentre Bed time, come suggerisce il titolo gioca proprio su questa ambiguità. Se a muovere l’orco di Bed Time è il desiderio di rendere infelici gli altri beffandoli con crudeltà aberranti, tra cui innanzitutto la beffa sessuale, in Door Lock il colpevole è un sadico, con una visione completamente alterata di cosa sia amare qualcun altro, che contrasta, attraverso modalità terrificanti, la sua solitudine, poiché considera la dipendenza, l’impotenza e il terrore come gli unici mezzi per avere qualcun altro accanto a se.
La solitudine è infatti uno dei temi fondamentali del film di Lee Kwon: quella della vittima, immersa nel lavoro, nell’operosità e nella frenesia dell’iper sviluppata Seoul, al punto da faticare nel costruire una propria vita sentimentale; ma anche quella del carnefice. “Solitudini tecnologiche”,che creano mostri, i quali si nascondono come demoni all’ombra della falsa sicurezza che sembra essere garantita da mezzi progrediti quali una chiusura elettronica della propria abitazione. Ma il tastierino è facilmente alterabile, nessun sistema di protezione è sicuro, ci vuole dire il regista.
La dimensione privata, quella che la protagonista è molto attenta a salvaguardare dall’intrusione altrui (al punto di tenere vestiti maschili dentro casa, per far credere agli altri di stare con un uomo e di non essere sola), viene scardinata dalla deviata mente criminale dell’antagonista, che escogita conturbanti modalità per sfruttare la tecnologia a suo vantaggio. In tutto ciò la polizia è a dir poco inaffidabile e superficiale, come in altri film coreani (ad esempio in Memories of Murder di Bon Jon). Nè le istituzioni, né le costruzioni possono arginare la violenza repressa che si annida nella solitudine tecnologica di Seoul.
Come si evince da quanto detto il film di Lee Kwon è un thriller ad altissima tensione, che non risparmia colpi di scena, né la violenza dei suoi contenuti, ma che, infine, è catartico e, nonostante la tensione accumulata, fa vincere il bene, facendo riflettere però su quanta insicurezza possa celarsi dietro l’apparente perfezione delle macchine.
La trama fila logicamente, tranne per qualche punto un po’ meno chiaro, comunque di contorno rispetto alla vicenda principale. Interessante il dialogo Spagna-Corea (entrambi paesi che producono thriller di alta qualità) su un soggetto cinematografico simile. Tra l’altro c’è anche un po’ di Italia in tutto ciò, considerando che la sceneggiatura del film spagnolo è scritta dall’italiano Alberto Marini, da cui è stato tratto anche un libro edito in Italia da Mondadori.
Tornando a Door Lock, si tratta senz’altro di un film di qualità, come molti altri, di questa edizione del Festival, una manifestazione davvero curata e ben organizzata, che valorizza con professionalità, passione ed energia la cultura cinematografica dell’Estremo Oriente, tra l’altro riscuotendo una viva e attenta partecipazione da parte del pubblico.
Durante la proiezione di in sala, al Teatro Nuovo di Udine, con posti esauriti sia in platea che in galleria, è stata presente anche la brava attrice protagonista Kong Hyo-jin, la quale, successivamente è stata intervista in Sala Conferenze con la mediazione linguistica del critico cinematografico Darcy Paquet.