Dancer in the dark – Chiudo gli occhi e spicco il volo

Viaggio in “Dancer in the dark”, il film che ha lanciato Lars Von Trier tra le stelle del cinema europeo.

È il 2000 quando viene presentato a Cannes Dancer in the dark. Il film definito brutto da alcuni e premiato con la palma d’oro da altri, colpisce ed emoziona, fa riflettere e divertire, ma come tutti i film del regista danese lascia una strana sensazione addosso che ci lascia scomodi, turbati e sopratutto un po’ tristi.

“C’è sempre qualcuno pronto ad afferrarmi quando sto per cadere”

La frase che ricorre spesso nel lungometraggio di Lars Von Trier è probabilmente la più bella ed emblematica del film, e non è un caso che venga pronunciata (o meglio cantata) durante alcune delle scene musical(i) in cui magicamente, con il più minimo rumore, la nostra protagonista fa partire la musica.

Un mondo in cui il tragico sembra sparire nonostante le ambientazioni di questi balli siano le più tetre in cui azzardarli: un tribunale durante la sentenza, la fabbrica nel pieno del turno lavorativo, sui binari di un treno, nel braccio della morte.
È qui che Trier dimostra ulteriormente (noncurante delle scelte rischiose) di saper padroneggiare con agio le costanti del musical: Selma (interpretata dalla cantante Björk) è una giovane mamma immigrata che a poco a poco sta perdendo la vista, e che lavora tutto il giorno per poter permettere al figlio un’operazione che lo salverebbe dallo stesso destino.

Il film si dimostra così tipico e anomalo insieme, di matrice Trieriana ma incredibilmente differente dagli altri film del danese, che costringe la protagonista ad un soffocante avanti-indietro tra fabbrica e casa, lasciando alla felicità lo spazio esiguo -e sconfinato allo stesso tempo- del cinema e del teatro, prima vissuto in prima persona, poi solamente immaginato nel buio della cecità.

Le ambientazioni cambiano però in quanto cambia l’attitudine dei protagonisti della scena: paradossalmente le scene musicali non sono le oasi felici di Selma che durante il ballo sembra ritrovare la vista, bensì la (ri)scoperta di un mondo nuovo per tutti i restanti presenti nella scena, i quali, aiutati dalla protagonista, vengono trascinati in una dimensione in cui la vista non serve in quanto a guidare è il cuore, che aiuta a spostarsi e a restare in equilibrio (e non solo fisicamente) anche nelle situazioni più difficili.
È proprio in queste scene che la macchina a mano che segue le vicende non ballate viene meno e si punta sulla regia tradizionale e ritmata, dove il montaggio accelera in frequenti cambi di sguardo in cui i ballerini improvvisati hanno poco tempo per riempire e sfruttare l’inquadratura.

Lo sguardo classico e accelerato delle canzoni si oppone, nel film, alla regia che va a tentoni (e non “ubriaca” come goffamente definisce il Mereghetti) delle scene della vita di tutti i giorni in cui il regista rinuncia alla comodità degli appoggi e accetta la stessa situazione che vive la protagonista, costretta ad avvicinarsi troppo (o troppo poco) alle persone, così fa Von Trier che alla macchina certe volte troppo lontana alterna primi piani esagerati e talvolta sfuocati, come a non rendersi conto -come fa Selma- della sua posizione rispetto ai suoi attori.

In Dancer in the dark Selma riesce a sovvertire i canoni del musical trasformandolo in un tragimusical in cui il silenzio può diventare abisso, ma può essere anche vita. La stessa vita che sfrutta finché rimane silenzioso il telefono della morte che sancisce l’ordine definitivo dell’impiccagione.
In quest’ultima canzone è lei stessa a spiegarci come colui “che era sempre lì mentre stava per cadere” era semplicemente suo figlio Gene, ardente desiderio di una ragazza che ha voluto a tutti i costi diventare madre, in modo da provare a trasmettere -ma anche a ricevere- un amore che va oltre gli ostacoli (che fanno luce sulla situazione terribile dei non vedenti nella nostra società) del materiale e del sensoriale, a cui la protagonista e suo figlio sono condannati.

Sono l’amore e la fiducia infatti l’unica salvezza dell’uomo in Dancer in the dark, quello indissolubile di una madre, così come quella alle basi di un segreto impronunciabile, come quello rivelato con Bill, appoggio sicuro in mezzo al buio che viene a mancare di colpo e che fa cadere Selma nell’oscurità ancora più profonda.

Così più la cecità (ed il buio) si fa grave più Selma ha bisogno di persone vicine che possano guidarla dalla fabbrica alla casa, nei binari e dalla cella alla fune, poco importa che siano coscienti del fatto che stiano per iniziare a ballare, alla protagonista (come alle classiche principesse Disney) basta un tocco per trasformare ogni cosa, e trascinarli nel suo mondo di buio che si rivela luce accecante, così come sono gli ultimi secondi del film in cui la testa della protagonista si china verso il basso come il più classico degli inchini a fine rappresentazione e le due guardie chiudono con le tende il tragico palcoscenico, prima del movimento della macchina da presa verso l’alto, quasi a seguire l’anima di Selma. Finalmente libera di essere spirito libero, oltre che eroina morale, oltre che ballerina dei sensi.