Cinema e lingua italiana: un rapporto in continua evoluzione

Quando si parla di un film, uno degli aspetti che salta primariamente all’occhio è la componente linguistica. Gli attori, ovviamente, parlano, dialogano, recitano un copione. I linguisti parlano, in questo senso, di un “parlato recitato”. La lingua italiana diventa così uno degli aspetti cardine della storia del cinema nostrano, un elemento in continua evoluzione e non così immediato da analizzare.

Il cinema nacque a fine ‘800, con i primissimi cortometraggi muti in cui la parola era totalmente assente. O forse no. Non è sbagliato dire che nei primi film gli attori non parlavano, ma a partire dai primi anni del XX secolo venivano inserite delle didascalie molto brevi affinché lo spettatore potesse capire cosa stava succedendo in una determinata scena. La lingua usata era ancora molto lontana da quello che oggi possiamo considerare un “parlato quotidiano”, che caratterizza i dialoghi dei film attuali.

Interessante, per i nostri fini incentrati sull’analisi della lingua italiana, è l’esempio fornitoci da Cabiria, film del 1914 diretto da Giovanni Pastrone e considerato il più grande kolossal della storia della settima arte. Per la sceneggiatura di questo film ha contribuito Gabriele d’Annunzio, poeta di spicco nei primi anni del secolo. La sua scrittura si è, però, riversata in quelle che sono le didascalie del film, che sono diventate giocoforza stucchevoli e pompose. Ecco un esempio:

SOFONISBA: Di com’è egli?
ANCELLA: Come il vento di primavera, che valica il deserto con i piedi di nembo recando l’odor dei leoni e il messaggio d’Astarte.

Avete capito qualcosa? Se la risposta è no, state tranquilli, nemmeno noi.

Locandina di Cabiria indirizzata al mercato anglosassoneete

Con l’avvento del sonoro le cose cambiano. Il 1930 è l’anno chiave: La canzone dell’amore di Gennaro Righelli è il primo film sonoro italiano. I dialoghi sono comunque fortemente influenzati dalla parlata teatrale, il che rende il linguaggio abbastanza articolato.

Gli anni ’30 sono anche gli anni della propaganda fascista. Il regime di Mussolini, infatti, ha il pieno controllo di tutti i mass media, dalla radio ai quotidiani, passando per il cinema appunto. La lingua, in questo senso, si fa simile a quella dei famosi comizi del duce davanti alle folle: una lingua che deve molto alla tradizione classica romana, dalla quale si traevano gli spunti principali per la retorica fascista. Vengono prodotti anche film ambientati nell’età dei latini, come Scipione l’africano, film del 1937 diretto da Carmine Gallone. La cosa curiosa è che il dialetto, notoriamente osteggiato dal regime, trova il suo spazio nel cinema di questo periodo.

Con la fine della seconda guerra mondiale si va incontro a quella che è una vera e propria rivoluzione linguistica e culturale: entriamo nella cosiddetta fase del Neorealismo, movimento culturale nato proprio in ambito cinematografico che si pone come obiettivo quello di raccontare le atrocità del conflitto. I registi neorealisti, da Luchino Visconti a Vittorio de Sica, fanno una scelta forte: vogliono puntare su attori non professionisti affinché si possa garantire il massimo realismo da coloro che quegli eventi li hanno vissuti in prima persona. Per quanto concerne la lingua, con questa svolta entrano in gioco dialetti, a volte turpiloqui, parlate diastraticamente più basse e un linguaggio in definitiva più spontaneo. Il tutto rende i nuovi film estremamente eclettici sotto questo punto di vista.

Importante diventa anche il contributo del cosiddetto “italiano popolare”, riscontrabile soprattutto nei film di Totò. La lingua, in queste produzioni, è caratterizzata da strafalcioni che fanno anche ridere lo spettatore. Celebre è il caso di Totò, Peppino e… la malafemmina, film del 1956 passato alla storia soprattutto per la famosa scena della lettera: troviamo qui un caso di malapropismo, una sostituzione di una parola con un’altra simile ma dal significato totalmente diverso che produce un effetto comico (in questa scena, Totò pronuncia parente anziché parentesi).

Nel cinema degli anni ’80 diventano popolari le parolacce, soprattutto con il personaggio di Pierino, interpretato da Alvaro Vitali. Nelle produzioni degli anni 2000, poi, troviamo una commistione notevole di elementi linguistici: dalle già citate parolacce ai numerosi esempi di dialetto, soprattutto con caratteristi quali Enrico Brignano, Enzo Salvi, Aldo Baglio, Luciana Litizzetto, che contribuiscono a una stereotipizzazione di quella che è appunto la parlata regionale.

Ultimo aspetto della lingua del cinema italiano di oggi è il contributo delle lingue straniere, con netta prevalenza degli angloamericanismi sulle altre lingue. Della lingua inglese si hanno attestazioni addirittura nella produzione cinematografica degli anni ’40 (basti pensare al termine Sciuscià, che dà il titolo al film di Vittorio De Sica e che deriva dall’inglese shoe shine).

Il cinema, come abbiamo visto, è sempre stato legato in qualche modo con i tempi e le politiche correnti, sia dal punto di vista degli argomenti sia dal punto di vista linguistico. Quello che possiamo dire ora è che sicuramente la lingua dei film cambierà ancora, si adatterà ai tempi che arriveranno e anche, perché no, alle mode che domineranno gli anni a venire.

Marco Nuzzo