Il cinecomic all’italiana: “Lo chiamavano Jeeg Robot”

Andare al cinema a vedere un cinecomic sottintende nel 90% dei casi che la pellicola sia stata ambientata come minimo in una megalopoli tutta sfarzo e ricchezze, che i protagonisti siano dei ricchi playboy e che lo spettacolo sia un trionfo di effetti speciali.

C’è chi poi, come Gabriele Mainetti -alla sua prima esperienza da regista al cinema-, decide di produrre, e appunto girare, un film di supereroi tutto all’italiana. “Lo chiamavano Jeeg Robot” è un film estremamente controverso e che, una volta finita la proiezione, suscita decine di riflessioni contrastanti. Dopo averci riflettuto un po’ su, queste sono le nostre opinioni su uno dei film più attesi nel panorama cinematografico italiano.

Il grande punto di forza di questa pellicola è -paradossalmente- la mancanza di effetti speciali, che permette al film di risultare credibile, senza degenerare nelle “americanate” di cui le pellicole “made in Usa”  sui supereroi sono piene. “Lo chiamavano Jeeg Robot” è “italiano” sotto ogni punto di vista, e chi afferma che è solo una brutta copia -o peggio una parodia- dei cinecomics targati Marvel o DC Comics inciampa in un brutto errore di superficialità.

Enzo Ceccotti (Claudio Santamaria) è un piccolo criminale di Tor Bella Monaca che vive di piccole rapine fino a quando un giorno, cadendo nel Tevere, non entra in contatto con dei rifiuti tossici che gli conferiscono una forza sovrumana e una resistenza fuori dal comune. Enzo inizialmente userà queste sue abilità per ottenere il massimo dalla sua attività criminale, fino a quando i suoi affari non andranno ad intrecciarsi con quelli di Fabio Cannizzaro (Luca Marinelli), detto “Lo Zingaro”, capo di una batteria di criminali romani che entrerà in conflitto con il protagonista.

Nel frattempo Enzo instaura -più o meno volontariamente- un rapporto con Alessia (Ilenia Pastorelli), la sua  vicina di casa ossessionata dall’anime giapponese Jeeg Robot d’Acciaio. Sarà proprio questo rapporto a far cambiare prospettiva al nostro protagonista che deciderà di usare i suoi poteri per fini più nobili.

La trama è una storia come tante altre in cui i protagonisti sono piccoli criminali della malavita romana che svolgono le loro attività illecite, senza essere snaturati eccessivamente dal fatto di essere personaggi di un cinecomic. Il personaggio più anomalo del film è, per certi versi, proprio Ceccotti, che data la sua natura di ladro non rappresenta lo stereotipo ideale del supereroe. I poteri non sono stati conferiti ad un giornalista o a un fotografo, bensì ad un criminale, ad un “coatto” come lo definisce lo stesso Santamaria, che almeno inizialmente non sfrutta questo dono per fare del bene, curando esclusivamente i suoi interessi personali e continuando a sopravvivere in totale solitudine. Ed è proprio la solitudine la caratteristica principale di Enzo: non sembra avere ne amici ne parenti, vive isolato dal mondo mangiando budini in quantità industriali mentre fuma sigarette e guarda film hard. A salvarlo da questo mondo alienante arriva la giovane Alessia, sua vicina di casa,  che nonostante gli abusi subiti dal padre, riesce comunque a sorridere sempre, riuscendo a fare cambiare il nostro supereroe che, affezionandosi a lei, inizierà a vedere il mondo sotto una luce diversa.

Il rapporto tra Enzo e Alessia è senza dubbio il fulcro del film, anche se va riconosciuto che questo filone narrativo toglie parecchio spazio al villain, lo Zingaro, un personaggio che risulta comunque molto gradevole. Fabio Cannizzaro è il classico criminale romano che vuole fare il colpo della vita per entrare nel “giro grosso”, ma dietro tutta questa ambizione si nasconde una follia delirante che lo porterà sempre al fallimento. Prima l’affare di droga andato male con dei napoletani, poi il maldestro tentativo -comunque andato a buon fine- di acquisire anch’egli i poteri di Enzo,e infine l’attentato allo stadio sventato ancora una volta da Enzo (che già aveva, senza saperlo, mandato all’aria l’assalto a un blindato da parte della batteria dello Zingaro), mostrano un personaggio ben portato sullo schermo da Marinelli, ma che in ottica narrativa è l’emblema del “vorrei ma non posso”. Nonostante ciò l’interpretazione del personaggio è ben riuscita in quanto la vena di follia e di totale irrazionalità dello Zingaro sono i punti forti di un personaggio che avrebbe meritato più spazio nella pellicola. Il film presenta inoltre alcuni tratti umoristici. Dai metodi poco ortodossi di Ceccotti nel curare una brutta ferita al piede fino ai bizzarri travestimenti e le esibizioni anni ’80 dello Zingaro, non mancano anche gli elementi che strappano qualche risata.

Dopo aver discusso dei personaggi principali, non si può non parlare di tutto ciò che di buono è stato fatto dal team dietro le telecamere. Mainetti alla regia, Guagliarone alla sceneggiatura e Braga alle musiche, sono una squadra già rodata avendo lavorato ad una serie di cortometraggi ispirati ai personaggi di manga e anime giapponesi, tra cui “Basette” -anch’esso ambientato a Tor Bella Monaca- e “Tiger Boy”, ispirati  rispettivamente alle avventure di Lupin III e de L’Uomo Tigre. In questa pellicola dà il suo importante contributo il celebre fumettista Menotti che, collaborando con Guagliarone alla sceneggiatura, è riuscito a far funzionare un genere che in Italia non aveva mai funzionato davvero.

Parlando di un possibile futuro, nonostante il film possa anche considerarsi autoconclusivo, il finale di “Lo chiamavano Jeeg Robot” lascia aperte le porte ad un possibile sequel su cui gira già qualche voce, ma prima che tutto ciò possa diventare un’ipotesi concreta bisognerà aspettare il riscontro al botteghino.

E poi ci sarà sempre la parte del pubblico che giudicherà male questo film perché “sì le storie con protagonisti i supereroi son sempre le stesse, ma questo film è senza effetti speciali ed è italiano quindi non va bene”. Noi invece pensiamo che proprio per l’assenza degli effetti speciali, per le ambientazioni a noi fin troppo familiari, per i protagonisti che invece di andare in giro con la batmobile escono in scooter, proprio perché è un film italiano, “Lo chiamavano Jeeg Robot” può essere riconosciuto a pieni voti come un esperimento ben riuscito. Non era facile portare il genere dei cinecomic nel cinema italiano, e il lavoro fatto da Mainetti e da tutta la sua squadra ha portato ad un bel risultato che, chissà, potrebbe fare da apripista nei prossimi anni all’arrivo nelle sale di nuovi film di questo genere.

Gabriele Fardella