Candidato all’oscar come miglior film straniero nel 2019, Burning di Lee Chang-dong è un film che ha fatto molto parlare di se soprattutto per il giudizio molto favorevole espresso dalla critica.
L’opera del regista coreano (distribuita nelle sale italiane dalla Tucker film), che noi di Social up abbiamo avuto occasione di visionare durante l’anteprima milanese presso il Palazzo del Cinema Anteo (il film uscirà in sala a settembre), sfrutta uno spunto letterario che proviene dal Giappone, precisamente dalla penna di Murakami nel racconto “Granai incendiati” e, come affermato dal regista, “ne utilizza l’aura di mistero, moltiplicandola cinematograficamente su più livelli”.
Come accade spesso nel cinema orientale di qualità non è semplice inquadrare questo film in unico genere cinematografico: se inizia come il racconto di due anime sole che si incontrano abbastanza casualmente, ricercandosi in maniera discontinua, non scevra da conflittualità, distanze, silenzi, desiderio e negazione, si evolve poi nel misterioso e inafferrabile racconto di un triangolo amoroso, terminando infine come un thriller conturbante in cui emerge la descrizione dei lati più oscuri della natura umana, che divampano con roghi ardenti mai del tutto purificatori.
Il complesso film di Lee Chang-dong è un climax ascendente, una storia d’amore eterea e cangiante come il fumo provocato da una combustione. Un fumo in cui l’amore stesso può perdersi e smarrirsi, ma che al contempo può unire silenziosamente un uomo e una donna in gesti semplici come quello di accendere insieme una sigaretta, senza nemmeno il bisogno di scambiare parole.
E’ il fumo più che il fuoco l’elemento che emerge per primo nella pellicola. Un elemento simbolico che torna con eleganza, inizialmente tra le righe, poi in maniera sempre più forte, quasi ossessiva, nel desiderio disperato di ricercare la traccia del granaio incendiato e fumante, un granaio ormai perduto e per questo ancora più bramato di prima.
Non è un caso che il primo momento di unione tra i due protagonisti sia sancito proprio dal fumare insieme una sigaretta. Lui, Jongsu ( l’attore Yoo ah-in) è un aspirante scrittore, laureato, ma disoccupato, che si lascia trascinare passivamente dalla vita: abbandonato dalla madre da ragazzino per la condotta violenta e rabbiosa del padre, si ritrova a vivere nella casa di quest’ultimo, un uomo orgoglioso e criptico, in fin dei conti un un disadattato incapace di controllare la propria ira, finito in carcere per la sua violenza.
Anche il figlio però mostra di non voler davvero occupare un posto nel mondo. I suoi sforzi per trovare una nuova occupazione sono minimi, così come discontinui sono i suoi tentativi di rimediare alle mancanze del padre o di aiutarlo a migliorare. La scrittura, anch’essa è per lui estremamente difficile, nonostante sia un osservatore attento ai dettagli. Anche l’affascinante donna che incontra sin dall’inizio del film, non è da lui ricercata, ma è lei stessa a gettarsi letteralmente tra le sue braccia, incitandolo e guidandolo passo passo nella relazione fisica e mentale.
Lei, Haemi (interpretata dalla bella e carismatica attrice Jun Jong-seo, non a caso notata anche da Hollywood e già coinvolta in nuovi progetti in occidente) è al contrario una ragazza stravagante, propositiva, fantasiosa, sogna di viaggiare e di vedere il mondo, esibizionista, anche se in fondo cela un disperato bisogno di essere notata e di ricevere attenzioni nella sua solitudine ed è in realtà estremamente fragile e malinconica, a tratti quasi autodistruttiva, evanescente e sfuggente.
Due opposti che, legati da un passato semplice, l’origine campagnola, si erano infatti già conosciuti durante l’infanzia nella vita di periferia, si ritrovano nel presente condividendo quel poco che hanno: Haemi dà le chiavi di casa a Jong-seo perché egli badi al suo gatto durante il viaggio che la ragazza intraprende presto in Africa, con la promessa che si ritroveranno al suo ritorno. Jong- seo l’accompagna in giro col suo mal ridotto furgone.
La loro strana relazione viene presto turbata da un terzo incomodo. Di ritorno dall’Africa Haemi è scortata infatti da Ben, interpretato da un acuto e intenso Steven Yeun (noto al pubblico occidentale per il suo ruolo in The Walking Dead), un uomo ricco, affascinante, seduttivo, ben inserito nella società di Seul, che rispetto ai mezzi a dir poco rudimentali di Jong-seo (un furgone, abiti malandati e aspetto trasandato, pasti frugali, disordine in casa), usufruisce invece di tutte le tecnologie più progredite del benessere (una porche, una casa ultramoderna, un grande senso estetico e un altolocato gusto per locali, luoghi e svaghi). Potremmo dire la vecchia Seul contro la nuova, per molti aspetti occidentalizzata.
Ovviamente la bella Haemi non può che essere l’oggetto fondamentale di questo corteggiamento, ma se all’inizio sembra che Ben sia interessato alla donna, gradualmente si scopre che l’uomo è in realtà forse più interessato a sottrarla a Jong- seo, di cui è segretamente geloso.
Anche lui come gli altri due personaggi è in cerca di uno stimolo che lo risvegli dall’inattività, anzi, a causa della saturazione del suo desiderio, provocata dall’avere praticamente tutto ciò che desidera abbastanza facilmente, sembra che ciò che sia in grado di dargli piacere e di non annoiarlo sia solo qualcosa che lo scuota con violenza attraverso emozioni forti non facilmente vivibili da lui, come dimostra la scena in cui vedendo Haemi piangere, sostiene di essere attratto da chi riesce a versare lacrime, perché lui non è più capace…
E’ a questo punto che si affaccia uno dei temi fondamentali del film: la distinzione tra “little hunger” e “great hunger”, così come prospettata più volte da Haemi.
“Ci sono coloro che sono affamati di cose piccole (little hunger), di desideri piccoli, che possono saziare mangiando cibo e coloro che invece hanno fame non di cibo ma di cose più grandi, invisibili, cose che diano un senso alla propria esistenza”.
Il discorso di Haemi rappresenta l‘attrazione duplice e opposta che la ragazza ha verso i due uomini: Jong seo è la vita semplice, ma autentica, sicura, affidabile, sebbene scevra per certi versi di grandi emozioni; Ben è la vita sofisticata che rilancia il desiderio e spinge verso la sperimentazione di piaceri nuovi e sconosciuti, anche conturbanti e profondamente autodistruttivi.In bilico tra i due uomini (tra le due scelte di vita, Corea del passato contro Corea del futuro, in una possibile lettura politica del film), Haemi si dimena come fumo agitato dal vento, senza sapere bene dove andare. Dal canto suo anche Jongsu è incapace e inerme dinnanzi al nuovo rivale, da cui è eclissato e non sa come contrastarlo, arrendendosi quasi passivamente alla sua superiorità. La ragazza però continua a cercare Jongsu, come per spingerlo a reagire… Nel frattempo anche Ben è sempre più irritato dalle resistenze della ragazza e dal legame che lei ha con Jongsu. Poi, all’improvviso Haemi compare nel nulla, svanisce come fumo, lasciando Jongsu nel nulla..E’ da questo momento in poi che il film assume dinamiche thriller: il fumo si attua in roghi realmente esistenti e al livello cinematografico appare finalmente il fuoco.
Qual è il granaio che brucia? Questa la domanda che finalmente alimenta il moto attivo, la corsa di Jongsu, che è tardiva, disperata, ma anche tenace e risoluta nello scoprire la verità.Si aprono i “vasi di pandora” dei due rivali (dal punto di vista cinematografico bello il parallelismo tra la scatola del padre di Jongsu e il portagioie nella casa di Ben). Si comincia a distinguere la finzione dal reale: si da voce e contorno al fumo che prima era invisibile (l’interesse di Haemi per il mondo silenzioso criptico dei mimi e l’incertezza dei racconti della ragazza è un ulteriore ambiguità che disorienta non poco il protagonista che la cerca).
L’amore brucia finalmente e provoca scottature indelebili dinnanzi alle quali bisogna spogliarsi ed essere nudi per poter sopravvivere. Mirabili le due scene in cui rispettivamente Jongsu e Haemi si spogliano dei loro vestiti, sebbene avvengano in momenti diversi, una, per Jongsu, dinnanzi ad un rogo angosciante di giustizia, l’altra, quella inerente alla ragazza, dinnanzi al fuoco calante di un tramonto, segnano da lontano il legame autentico che esiste tra loro, attraverso una poesia registica sofisticata e nascosta che infine svela come il loro incontro fosse semplice e spontaneo al contrario di tutto il fumo che ha offuscato i loro occhi rendendoli sempre più distanti.
Che dire dunque di Burning? Un film complesso, che regala alcune scene memorabili, di suggestiva bellezza. La sua complessità incide però anche sulla durata, 148 minuti di buon cinema, che però rimangono sempre 148 minuti, i quali pesano in un certo qual modo sullo spettatore, in una storia che descrive tre personalità che si scontrano tra loro. Forse la durata poteva essere lievemente inferiore, elidendo alcuni episodi, sebbene il film non sia comunque lento nel suo andamento. Nel complesso un bel film, per chi ama visioni stratificate e d’impatto e ha la pazienza di risalire dal fumo al fuoco, seguendo l’intelligente sceneggiatura e la colta regia di Lee Chang-dong.