Dopo il criticato Suicide Squad, David Ayer torna alla regia e ingaggia anche stavolta Will Smith (lì nei panni di Deadshot) per girare il fanta-poliziesco “Bright”, distribuito in esclusiva da Netflix. In uno strano mondo dalle ambientazioni contemporanee e futuristiche (non medievali) in cui magia e scienza convivono tra loro, la Terra è dominata dagli elfi, che con la loro magia in passato hanno sconfitto un misterioso signore oscuro, garantendo la salvezza di tutti gli esseri viventi. Gli orchi, ben più poveri, sono costretti a vivere nella periferia e nei ghetti, invece che nei lussuosi e iper-tecnologici quartieri elfici, dove sono vittima di razzismo e discriminazione, anche per l’onta di essersi schierati in passato col signore oscuro.
Il poliziotto umano Ward (Will Smith), a pochi anni dalla pensione (dovuta al fatto di essere stato ferito durante una sparatoria) viene affiancato da un collega mezzorco Nick Jakoby (un truccatissimo Joel Edgerton): una misura che dovrebbe favorire l’integrazione tra le razze. Jakoby però è fortemente discriminato dal corpo di polizia. A complicare il tutto ci si mette la comparsa di una bacchetta, una sorta di arma magica ultrapotente, assieme all’apparizione di una ragazza, Tikka, una Bright, cioè un essere in grado di utilizzare una bacchetta senza esplodere al contatto con quest’ultima come accadrebbe a chiunque altro, e della sorella malvagia di quest’ultima, Leilah, che vorrebbe il ritorno del signore oscuro. I due “sbirri” si troveranno al centro di questa lotta soprannaturale.
Sulla carta l’idea di Ayer (anche co-sceneggiatore) è davvero eccentrica e almeno per il primo quarto d’ora cattura l’attenzione dello spettatore. Rendere “orchersche” le discriminazioni razziali, con graffiti anti orco, nonnismo e xenofobia contro le creature fantastiche ha chiaramente un intento ironico e lo scopo del regista sembra quello di voler fare una parodia del genere poliziesco. Il problema però è che ci inserisce dentro delle problematiche a loro modo razziali, che non sono affatto credibili e alla lunga risultano anche un po’ ridicole, quando il film comincia a puntare più su di esse che su altro, come ad esempio l’azione o il funzionamento della società fantastico-scientifica in cui la storia è ambientata. Se all’inizio la pellicola incuriosisce per la sua stranezza e per il mondo che sembra voler delineare, fatto di gerarchie e associazioni segrete, che siano “governative”, anarchiche o favorevoli al ritorno del male (il signore oscuro), ben presto si capisce che la pellicola non asseconderà nessuna delle premesse fatte.
Il rapporto di amicizia-scontro tra i due poliziotti diventa abbastanza patetico e nemmeno tanto divertente, a differenza ad esempio dell’efficacissimo duo di Rush Hour, con un poliziotto cinese (Jackie Chan) e uno americano di colore (Chris Tuker). Anche in quel caso siamo di fronte alla parodia di un poliziesco (non dalle tinte fantasy), ma oltre ad esserci grande alchimia tra i due attori, c’è ritmo, divertimento, azione, caratteristiche che mancano in questo film di Ayer. Ward e Jakoby sono personaggi stereotipati e il loro scambio di battute è spesso forzato e slegato dal contesto e non fa divertire come vorrebbe. Il film si concentra in modo ridondante sul loro rapporto, trascurando altri elementi della trama che potevano interessare di più lo spettatore. Ad esempio il personaggio della Bright, Tikka è ridotto a un semplice escamotage per far muovere i protagonisti da un luogo ad un altro, molto spesso tra l’altro senza ragioni giustificabili; così che l’attenzione viene mortificata da sparatorie contro gang urbane, prive di mordente e di tensione. Il comparto dei cattivi poi è ridotto a qualche decade di uccisioni violente, che delude molto l’altisonante descrizione che era stata fatta nella prima parte del film.
L’atmosfera di mistero che il film voleva creare all’inizio, la quale è cruciale in un poliziesco che si rispetti, perché induce lo spettatore a seguire le indagini dei protagonisti, ben presto si estingue e lascia il posto a scene action non molto brillanti e per lo più inverosimili, come il noioso scontro contro un gruppo di metallari orcheschi o la caotica e paradossale scena del camion dentro il supermercato.L’incontro con l’orco-padrino che vorrebbe essere drammatico è davvero pesante da digerire per lo spettatore e risulta patetico oltre ogni misura (forse, a suo modo è una citazione di Training day). Così il prevedibile finale che liquida in poche battute il “pericoloso tentativo” di risvegliare il signore oscuro non aggiunge abbastanza alla storia per renderla memorabile. L’idea finale che si ha di Bright è quella di un film abbastanza confuso che copia scene di molti altri film, senza avere una vera identità. Le lacune sono sopratutto nella sceneggiatura, che si ferma ad un’idea iniziale senza saperla portare avanti, così come nella regia, lì dove è evidente che il film è piatto e slegato e l’azione inserita nel montaggio senza grande convinzione.
Per comprendere i difetti di Bright basta guardare ad un altro film: l’originale e audace District 9 del 2009, esordio del regista Blomkamp, in cui viene resa la convivenza tra uomini e alieni sulla terra. Sebbene anche questa pellicola parta con premesse che sembrano ironiche (cartelli e graffiti anti-alieno), ben presto il film diventa tutt’altro: girato come un mokumentary, un falso documentario, infatti, District 9 descrive la grottesca, drammatica situazione degli alieni ghettizzati e sottoposti a terribili torture, tra cui anche la vivisezione. Lo fa seguendo da vicino il protagonista della storia: un umano che, entrato in contatto con alcune sostanze aliene si trasforma gradualmente lui stesso in alieno. La sua trasformazione mostruosa è seguita passo passo dal regista, che riesce a comunicare l’angoscia dell’uomo di mutare, non solo in una creatura aberrante (dall’aspetto di un gambero gigante), perdendo la sua umanità; ma anche quella di diventare un essere considerato inferiore e infimo dalla società umana, quasi si trattasse un animale da laboratorio.
La violenza del film (con alcune scene splatter) è funzionale a questa dimensione oprressiva in cui il protagonista viene catapultato. In tal modo il regista descrive la crudeltà degli esseri umani e le aberrazioni di cui essi possono essere capaci contro il diverso. La reazione del protagonista trasformato, che lotta per sopravvivere e per far emergere la sua identità è altrettanto violenta e feroce come quella dei suoi persecutori: un ritratto realistico che, sebbene trasposto in una realtà fantascientifica, che a priori risulterebbe paradossale, colpisce molto lo spettatore, inquietandolo e turbandolo.
Parlando di una razza aliena che non esiste, Blomkamp parla della realtà: perché in nome della superiorità della razza sono stati compiute realmente stragi, esperimenti e violenze. Mediante la distopia il regista ce lo ricorda, senza rinunciare però all’azione, anzi sfruttando la sua freneticità e la sua violenza per raccontarci una fuga che sembra impossibile per chi, diverso, viene perseguitato da chi si crede a lui superiore. Un film torbido, disilluso e potente: una scommessa azzardata da parte del regista, che al contrario di Ayer in Brigth, vuole davvero comunicare qualcosa e sconvolgerci, riuscendo con originalità a farlo, senza indugiare in sentimentalismi poco plausibili.