BlackKkKlansman: il manifesto satirico antirazzista di Spike Lee

Film presentato in concorso a Cannes 2018, BlackKkKlansman, è l’ultima pellicola di Spike Lee. Anche in quest’opera, come altre della sua carriera, il regista americano mostra chiaramente l’intento di voler approfondire e denunciare col suo cinema il tema del razzismo. Stavolta parte da una vicenda poco conosciuta.

Ron Stallworth (interpretato da John David Washington, figlio del celebre Danzel) è il primo afroamericano a diventare poliziotto a Colorado Springs. Fiero di essere nero (sfoggia senza problemi una vistosa capigliatura rasta) e per niente intimorito dalle pressioni di chi lo vede fuori posto nella polizia o intende discriminarlo per il colore della sua pelle, ha l’ambizione di fare qualcosa di concreto per cambiare dall’interno un sistema di discriminazioni che perdura da troppo tempo in uno stato conservatore e nazionalista come il Colorado.

Un po’ per gioco, un po’ come provocazione nei confronti della stessa polizia per cui lavora, che non lo valorizza, sottostimandolo, si finge per telefono un sostenitore delle ideologie xenofobe del Ku Ku Ku Klan, comunicando proprio con i leader della comunità del Colorado, e innesca un’operazione sotto copertura. Essendo di colore, Stallworth ha la necessità di essere aiutato da un altro agente (Adam Driver), il quale lo sostituisce per indagare sul campo sulle attività dei membri del Clan. L’operazione, partita quasi con scopo irriverente, diventerà ben presto più seria. Nel frattempo Stallworth si è anche infiltrato nella comunità delle Black Panter, per ordine della polizia, anche se non condivide il loro estremismo, perché la rivoluzione possa essere anche non violenta e svolgersi tramite le stesse istituzioni.

Da questa vicenda per molti versi marginale e meno potente di altre che sono state portate sullo schermo dallo stesso Spike Lee (per esempio la schiavitù della droga in Clockers) e da altri registi che hanno parlato del Ku Ku Klan (come nel potente Mississipi Burning di Alan Parker) il regista afroamericano trae fuori un vero e proprio manifesto antirazzista che parte come una commedia, ma assume poi i contorni del dramma e del discorso politico.

Sebbene il film sia girato con eleganza e sia molto chiaro nel denunciare la stupidità del Ku Ku Klan, diventando a tratti una satira contro i “bianchi incappucciati” (come sottolinea l’ironico titolo che gioca con le parole Klansman, uomo del clan, e il termine Ku Ku Klan) e contro l’estremismo dei valori su cui esso si fonda; a lungo andare però l’opera risulta per certi versi verbosa e ridodante, soprattutto perché “stira” il suo contenuto su una vicenda in fondo esile rispetto al vasto e complesso fenomeno del razzismo.

Non mancano certo scene interessanti, come ad esempio quella in cui i membri del Clan guardano con compiacimento e derisione la pellicola “Nascita di una nazione” di Griffith, film palesemente razzista, che ,realizzato da uno dei più grandi registi dell’epoca, ebbe il potere di risvegliare il razzismo e la xenofobia di molti americani che la covavano in segreto, coltivando rancore verso la vittoria dei nordisti sugli schiavisti del sud nella guerra di Secessione.

In questa scena è come se il cinema manifesto di Spike Lee si scontrasse con il cinema manifesto che a suo tempo fu di Griffith. Due ideologie totalmente opposte, entrambe in qualche modo volte a sbeffeggiare l’avversario: in modo plateale ed epico, Griffith; attraverso una sottile ed elegante satira Lee.

Nonostante le interpretazioni convincenti, bei dialoghi, personaggi ben costruiti e una bella colonna sonora, BlacKkKlansman, appare però complessivamente ripetitivo e troppo carico in alcune scene, come se il regista volesse rimarcare non una ma più volte la sua idea antirazzista, che di certo arriva al pubblico e ai destinatari; ma l’impressione finale, al livello cinematografico è quella di un film a tratti troppo pieno e dalla durata eccessiva, che, se fosse durato di meno non sarebbe stato di certo meno potente nel trasmettere il suo ben chiaro messaggio.

Spike Lee fa di questa vicenda un manifesto: il riscatto del poliziotto nero che lotta per i propri diritti e per contrastare il razzismo con la legge piuttosto che con la violenza; ma come si diceva la vicenda ha infine conseguenze modeste, che non riscono a cogliere attraverso le immagini la crudezza e la spinosità del tema, qui affidate più alle parole, ai dialoghi e all’ironia, più che che scene filmiche di denuncia. Troppe parole dunque, che girano intorno, in fondo a pochi fatti.

Nel complesso non il film più potente, né il più stratificato di Spike Lee nella sua lotta contro il razzismo.

Francesco Bellia