Alberto Lionello, un attore a tutto tondo e il ricordo del bel mondo

C’è sempre una sottile vena malinconica e a allo stesso tempo una delicata leggerezza dell’animo per far ridere il pubblico, così come ci vuole un’intensa espressione emotiva per affascinarlo o commuoverlo: suscitare un sorriso dolce o aperto che sia; provocare una spontanea ammirazione e indurre alla commozione ogni palpito del nostro cuore dovrebbe essere il compito specifico di un attore. Un raro privilegio che come una cartina tornasole rivela lo spessore di chi professa l’arte della recitazione.

Era d’una spanna ben sopra la media, quello di quel signore di mezza età che non riusciva ancora a coltivare la tranquillità e la serenità proprie di quello spicchio di vita perché sentiva d’avere ancora dentro la passione artistica e la motivazione mistica come quando da giovane venne folgorato dall’apparizione teatrale di Vittorio De Sica.


Alberto Lionello
, nel 1978, era una specie di vecchio frac dello spettacolo italiano: dotato d’una eleganza naturale accoppiata a un congenito ritegno che gli conferivano l’aria di un nobiluomo malinconico, in occasione della messa in scena di “Malato immaginario” di Molière, egli interpretò Argante con la solita maestria colorando il personaggio di una sottile ironia. Questa esibizione era tratta dalla trasmissione “Un personaggio per tre attori”, ideata dal regista Giuliano Zuloeta, in cui tre grandi artisti della scena italiana venivano chiamati a confrontarsi nello stesso monologo e un critico ne commentava le scelte interpretative. Un progetto ambizioso e coraggioso in cui, ancora una volta, il personaggio che era in lui fuoriuscì tutto intero: originale, disinvolto e incisivo più che mai egli sfoderò una performance di alto profilo recitativo. Benché maturo e ormai agli sgoccioli della carriera cinematografica e televisiva anche come conduttore, l’attore peraltro ringalluzzito dalla corrispondenza di amorosi sensi con la nuova compagna la sofisticata attrice Erika Blanc, da quel momento in poi dedicherà all’attività teatrale la maggior parte del suo impegno a suggello di una, fino a quel punto, trentennale carriera cominciata proprio nel lontano 1948. A quel tempo diciottenne, essendo nato a Milano nel 1930, quel giovane introverso ma di belle speranze a suo agio nel quartiere “bene” natio di San Babila, s’iscrisse all’Accademia dei filo drammatici dopo le prime esperienze nell’oratorio di via della Passione, nelle quali, a parte il trasporto, dimostrava di già una spiccata inclinazione.

L’anno dopo riuscì a entrare nella compagnia di Antonio Gandusio, dove le sue qualità primarie apparvero a tutto tondo nella pura rappresentazione della” pochade” francese: un tipo di commedia a sfondo grottesco ironico e paradossale che avrebbe influenzato tutto il suo percorso artistico. Intanto faceva gavetta recitando anche in quattro lavori differenti: al contempo affinava il suo stile di per sé già brillante, per rivestire la sua verve di una propria  emblematica caratteristica adeguandosi ai ritmi dei nuovi modelli recitativi. Dopo i successivi dodici mesi nei quali era approdato anche nella corte teatrale di Umberto Melnati, raggiunse il suo primo successo personale con la rappresentazione di “La pulce nell’orecchio” di George Feydeau. In futuro però nel 1966 al teatro stabile di Genova con la regia di Luigi Squarzina, egli avrebbe meritatamente impersonato il doppio ruolo del protagonista: Vittorio Emanuele Chandebise/Poche, accanto a Eros Pagni, Giancarlo Zanetti, Olga Villi e Silvia Monelli solo per dirne alcuni tra gli altrettanti bravi. Senza dimenticare la versione cinematografica diretta sempre dallo stesso regista e con le stesse interpreti femminili. Le sue incursioni nel mondo dello spettacolo leggero attraverso le varie presenze nelle compagnie di Wanda Osiris, Garinei e Giovannini, Age e Scarpelli, Dino Verde e Orio Vergani, vanno da quel periodo iniziale fino al 1954, quando tornò al teatro di prosa per interpretare con lusinghiero successo il coadiutore Isidoro nelle” Baruffe chiozzotte” di Carlo Goldoni. Avrebbe poi replicato lo stesso autore con la commedia “Le donne gelose” seguita da “Il campiello”. Per arrivare nel biennio 1957-58 al fianco di Tino Buazzelli, Lina Volonghi e Laura Betti in cui dovette affrontare un repertorio a metà tra il tragico e il comico: da U. Betti a Feydeau. Dopo questo periodo vissuto sulla cresta dell’onda, s’imbarcò nella compagnia di Andreina Pagnani e Lauretta Masiero e splendido splendente si rese protagonista di una spumeggiante prestazione in “La pappa reale” di F. Marceau per la raffinata regia di Luciano Salce. Riprese dunque un tema già affrontato in precedenza: quello del doppio: dove nei panni rispettivamente dell’anziano signor Joseph e del giovane Roger, Aberto Lionello diede prova di una forte presenza scenica abbinata a una sua primeggiante versione nell’esatto rispetto del controllo dei tempi.

Il 1958 fu anche l’anno del suo debutto cinematografico come caratterista in un film di Steno:” Mia nonna poliziotto”, seguito a breve da” Chi si ferma è perduto” e Cacciatori di dote”. Seguiranno produzioni commerciali di genere disimpegnato, con opportune variazioni sul tema erotico e ironico a  rappresentare qualche bella eccezione.

Ma ecco improvvisamente la notorietà, quella assoluta, che solo la televisione poteva dare. Accanto alla Masiero e ad Aroldo Tieri come conduttore partecipa all’edizione di Canzonissima 1960. E siccome sapeva anche ballare e cantare gli bastò una paglietta in mano e intonare un semplice motivetto La..la..la…per trasformarlo nel  tormentone del momento. Con la Tv di stato Lionello stabilì un proficuo sodalizio interpretando due sceneggiati di enorme successo diluiti nel tempo:” La coscienza di Zeno” del 1966, dove con sensibilità assoluta assorbe le sottili paturnie di quello strano personaggio, per rituffarsi sette anni dopo in un’ottima riproposizione con la regia di Sandro Bolchi di “Puccini”, uno stupendo ritratto di un personaggio difficile e spigoloso che ne rivela mirabilmente le intimità nascoste dell’anima. Oltre le commedie leggere di sicuro effetto: “L’anatra all’arancia” e “Sarto per signora” del 1979, tre anni dopo si congedò dal piccolo schermo con un altro pregevole sceneggiato: “Il piacere dell’onestà” di Luigi Pirandello, ormai in coppia fissa con la Blanc. Ed è proprio questo lavoro che riconduce al 1978, anno in qualche modo spartiacque della sua carriera e dunque della sua vita.

Da qui solo teatro che dovrà abbandonare però non prima d’aver sciorinato il suo meglio artisticamente. Scorrono come i titoli di coda le sue ultime rappresentazioni: Divorçons; Il gioco delle parti; Il mercante di Venezia e per finire nel 1993 con Mogli mariti e amanti in cui curò anche la regia, tutti interpretati accanto alla sempre più brava Erika, vero nome Enrica Colombatto, che con la sua e necessaria presenza fisica lo sostenne fino allo stremo, poiché gravemente malato.

Alberto Lionello rese l’anima a Dio il 14 luglio del 1994, due giorni appena dopo aver compiuto 64 anni: in quel tragitto verso il cielo lasciò indelebili tracce terrene del suo signorile talento e la scia luminosa dei ricordi suscitati dai suoi personaggi tra i quali, tralasciando quelli arcinoti del teatro e rivista, paradossalmente se ne dovessimo sceglierne uno a rappresentarlo, anche se in forte imbarazzo, opteremo per qualcuno del cinema proprio per quel senso di incompiuto che ne caratterizzò la striminzita carriera. Ecco il divertente Toni Gasparin di ” Signore & Signori”, una fulgente opera cinematografica del lucido e arguto regista Pietro Germi che come una spietata lente d’ingrandimento indaga sui vizi privati e pubbliche virtù di certi abitanti della provincia veneta a metà degli anni sessanta, sarebbe il nostro ideale prescelto: quell’ometto, alla fine simpatico, che surclassato dalle smanie egocentriche, religiose e bigotte dell’impettita moglie, una straordinaria Olga Villi, si crea un comodo alibi e reagisce trasgredendo assieme a una viscida combriccola di amici benestanti per così diventare un seduttore seriale ma finemente creativo. Un‘impeccabile ritratto di un bellimbusto che solo uomo di mondo come lui con una forte conoscenza della vita e dei suoi aspetti più reconditi rappresenta per intero, senza schermi protettivi, in maniera sublime con una degna accuratezza.

Vincenzo Filippo Bumbica