Achille Lauro, operaio del suo successo, ama le Cadillac, le Ferrari e le Rolls Royce

Non è trapper, non è rapper, non è pop. A scuola si direbbe “non classificato”. Nel mondo della musica si chiama Achille Lauro e il 12 aprile 2019 ha pubblicato “1969” ovunque.

Non vi è unanimità di vedute sul suo fare musica: c’è chi lo idolatra come fosse il nuovo futuro che stavamo aspettando, c’è chi pensa sia solo una moda perché il talento è un’altra cosa.

Qualunque cosa se ne possa dire, Achille Lauro è solo frutto di marketing e di strade giuste imboccate. Dove il talento non c’è, emergono altre qualità: i tatuaggi in volto, il look finto bohemièn ed arie da ragazzo umile che sogna di essere come Vasco Rossi.

Il nuovo album “1969” è un frullato di generi, di parole, di significati non significanti che fanno dire: se è questa la musica del futuro, lasciatemi nel passato, grazie!

Il ragazzo si impegna, ci crede fortemente, vuole fare il cantante, ma non basta. E allora dove non arriva la voce, compensano le teorie e le fantasie sul passato mai vissuto e che si prova a raccontare. È un po’ quello che accade con il nuovo progetto discografico.

La scelta di una data come il 1969 è perché: “Quella è stata per l’umanità l’epoca più importante a livello creativo, l’epoca della libertà, del cambiamento. Nel 1969 sono successe tante cose, da Woodstock al primo uomo sulla Luna. Quindi il titolo rispecchia quello che stiamo inseguendo: la voglia di fare, di essere liberi e di portare il cambiamento…” come ha raccontato Achille. In copertina un primo piano di Lauro circondato dalle icone degli anni ’60 – ’70 quasi tutti finiti male.  “James Dean come esempio della gioventù sregolata, Marilyn Monroe perché è citata anche in Rolls Royce con la frase “preferisco piangere sui sedili di una Rolls Royce che in quelli di una metro”, Jimi Hendrix come rappresentante dell’immaginario hippie e libertino, Elvis, che ha contaminato la mia musica soprattutto negli ultimi anni”.

“1969” consta di dieci canzoni. In mezzora si scopre il nuovo Achille Lauro il quale si definisce “operaio del mio successo. Questo traguardo è frutto del lavoro di anni e di sacrifici. Questo è il momento delle responsabilità, soprattutto verso le persone che hanno lavorato al progetto. Se sbaglio cascano in tanti, anche la mia famiglia”.

Da essere contenti, però, c’è ben poco perché se da un lato il successo ha garantito la riconoscibilità ad Achille Lauro ovunque, lo stesso non può dirsi del suo talento.

Le canzoni non sorprendono: lo stile di Achille Lauro è minimale. Monosillabi, repertorio delle parole straniere che conosce e una grande passione per le macchine di grossa cilindrata. Se sono smart, non interessano, non si toccano e non si guardano manco per sbaglio. I messaggi del disco non arrivano. Quali sono? Per non parlare degli arrangiamenti: è vero che si fa riferimento al passato, ma il prezzo da pagare è sempre la presenza dell’autotune.

Intanto, Achille può vantare un featuring con Coez in “Je t’aime”, la presenza del suo amico Boss Doms nonché produttore e la collaborazione con Simon P. in “Roma”.

Il nuovo album di Achille Lauro, quindi, non sorprende. È sterile, disarmonico nella sua disordinata armonia e vuoto di messaggi importanti.

Fino al 2 maggio, Achille Lauro girerà l’Italia con il suo instore tour.

Ai posteri l’ardua sentenza, intanto Achille Lauro vuole una vita così! C’est la vie!

Buon ascolto!

Sandy Sciuto