L’arcobaleno antropologico delle Seychelles

Di Giulia Testa per Social Up!

Inutile girarci intorno, appena qualcuno nomina Seychelles si pensa al mare, alle conchiglie (non a caso hanno pensato al nome Sea-Shelles), alle palme, alle coppie in viaggio di nozze. Chi c’è già stato le ricorda con malinconia, chi no, le brama.

Insomma, nella mente si figura uno scenario da film romantico, una foto senza dubbio da cartolina (quella ricevuta dai vostri amici appena sposati, ricordate?), quell’immagine che Windows propone per sfondo e che gli impiegati frustrati impostano come screensaver per sognare ad occhi aperti.

Queste sono cose che potreste sentirvi dire da un’agenzia di viaggi, ossia la descrizione della (bella) facciata di questo agglomerato di centoquindici isole più o meno a cavallo dell’equatore. Ma, così come dicono che la luce viaggi più veloce del suono, così è più facile lasciarsi intortare dalla visione di una location tropicale che da ciò che effettivamente c’è da dire su argomenti come la sua storia, il suo popolo.

Nessun fraintendimento, evviva la vacanza disinteressata e spontanea. I seychellesi amano i forestieri e saranno grati a vita per il turismo che hanno sviluppato, cercano addirittura di imparare nuove lingue da parlare. Prima di essere un capolavoro naturale e quindi attrazione turistica da bava alla bocca, però, queste isole sono un capolavoro umanitario e un sorprendente risultato sociale.

Victoria è la capitale della Repubblica delle Seychelles, una minuscola cittadina sull’isola di Mahè. Niente di particolare: un porto, un mercato, la casa del prete, una riproduzione in miniatura del Big Ben. Quello che però salta all’occhio quando uno straniero cammina per le sue strade, uscendo dai resort e immergendosi nella vita dell’isola, è altro: gli abitanti, e il fatto che siano tutti estremamente diversi tra loro.

Un piccolo doveroso ex-cursus storico ci ricorda che, quando le Seychelles vennero colonizzate dagli Europei per la prima volta, nessuno ci viveva. Queste isole non hanno quindi un popolo indigeno, non c’è mai stato astio per i coloni da parte di una tribù sfrattata, e nemmeno sanguinose guerre civili. Nel 1770 si stabilirono i francesi, poi nell’epoca Napoleonica arrivano anche gli inglesi, che però non scacciarono via i francesi. Entrambi i paesi avevano portato con loro schiavi africani, fino a che il commercio di essi fu bandito nel 1835. Dopo tale data, gli schiavi semplicemente cambiarono nazionalità: i nuovi sfruttati erano di origine araba. Nel frattempo, gli scambi economici erano detenuti specialmente con India e Cina, ragion per cui si stanziarono lì anche diversi mercanti asiatici.

Quando l’epoca del colonialismo finì, i neanche cinquecento metri quadri delle Seychelles, di cui forse solo metà abitabili, ospitavano una biodiversità etnica unica al mondo, in rappresentanza di tre contenenti e mezzo – Asia, Africa, Europa e Medio Oriente. Era la chiara conseguenza di intrusioni multiculturali (volute o meno), nel corso di decenni di conquiste, tira e molla e rivendicazioni.

All’inizio degli ‘anni liberi’ fu la confusione, ma poi le cose si stabilizzarono. La parte ammirevole di tutto ciò? Nessuna delle razze presenti si impose. Persone di nazionalità e origini diverse si univano in matrimonio e avevano figli, vivevano nello stesso quartiere e frequentavano gli stessi luoghi pubblici. Nel novecento, mentre il mondo impazziva in conflitti armati, le teorie di Darwin venivano distorte per infondere odio, Hitler compiva i suoi stermini antisemiti e il Ku Klux Klan si organizzava nell’ombra, le Seychelles non avevano mai conosciuto il razzismo, e, ormai, non avevano intenzione di farlo.

I seychellanesi ottennero l’indipendenza nel ’76 e, a quel punto, la loro ‘razza’ si era già sviluppata in tutte le sue sfumature, di colore di pelle, di religione, di tradizioni. Si fanno chiamare creoli, ma sanno benissimo di essere il frutto di anni e anni di convivenza in un calderone multi sfaccettato, orgogliosi che le cose siano andate così e dell’unità nazionale che sono comunque riusciti a conquistare.

«Siamo come un banco al mercato delle spezie,» dice un abitante del posto, «siamo come la nostra bandiera,» un misto di colori, forme e profumi diversi, un arcobaleno antropologico. Anche le lingue sono varie: ogni seychellese conosce il francese, l’inglese e il creolo, in tanti aggiungono l’italiano, il tedesco e lo spagnolo. Hanno la pelle scura e gli occhi azzurri, oppure la pelle chiarissima e gli occhi a mandorla, e portano spesso un nome francese ed un cognome britannico, ma anche indiano e arabo o africano e indiano. Sembra che non abbiano materiali o interesse a costruire grandi ed efficienti strutture pubbliche, eppure il tempio hindu sorge come una grande torre in technicolor in piena città, per altro a pochi metri dalla chiesa cristiana. Il proprietario della distilleria di rum a Plain St. Andrè è un uomo caucasico con un impeccabile accento britannico, il pescatore della barca Ocean Bird è un ragazzo nero alto e robusto con una cadenza vocale africana, eppure, anche se non si direbbe, sono nati nello stesso posto e fanno parte della stessa etnia.

Fedeli davanti al Tempio Hindu nella capitale

L’inevitabile effetto è che il turista, di qualsivoglia nazione sia, si sentirà sempre a suo agio, poiché potrà ritrovare un piccolo rimando della sua cultura anche in questo minuscolo paradiso tropicale, e verrà accolto con altrettanto buon cuore, perché, in un modo o nell’altro, parte dell’isola. Sorseggiare latte di cocco da una noce con un nativo seychellese potrebbe essere un’ottima occasione per farci conoscenza, e luim da parte sua, sarà più che felice di raccontarvi la sua versione di storia.