Vice: la satira da oscar sulla politica americana, che plasma uomini dal cuore cavo

Candidato a ben 8 premi oscar, Vice è un sofisticato film biografico, diretto dal brillante regista Adam McKay che, attraverso una pungente ironia e un gusto personale per la sperimentazione e la contaminazione dei generi, mostra ancora una volta, dopo “La Grande Scommessa (film del 2015, che gli valse l’oscar per miglior sceneggiatura)” di saper raccontare qualsiasi cosa, dalla crisi economica, fino alle cause della guerra in Iraq, adottando angolazioni potenti e inaspettate, preparate con cura ed intelligenza, attingendo alla sua creatività e dispiegando con nonchalance ed efficacia la sua colta irriverenza, che va sempre a segno, centrando il bersaglio con lucidità e acutezza sorprendenti.

In tal senso Vice è una pellicola che rilancia rispetto alla Grande Scommessa, che osa di più, abbandonando la dinamica corale del film precedente, per adottare invece uno sguardo individuale direttamente collegato al protagonista assoluto della pellicola: il Vice presidente Dick Chaney (da qui Vice), l’uomo dell’ombra del titolo (un magistrale Christian Bale), personaggio che diventerà presto il simbolo di qualcos’altro: una metafora dell’esercizio del potere per il potere stesso.

La sceneggiatura di Vice è davvero ispirata: scorrevole, imprevedibile, ma al contempo complessa e ben consapevole di dove vuole arrivare, è come una tela di ragno pop (per la giocosità e l’ironia che la sorregge), che però contiene innumerevoli informazioni, dati, ricerche, ricostruzioni, ipotesi, interpretazioni della realtà, affatto superficiali, con le quali, assieme agli stratagemmi registici più vari, tra cui falsi titoli di coda, e beffarde rappresentazioni Shakespeariane, narratori onniscienti fittizi, avvince totalmente lo spettatore, provocandolo nel profondo attraverso una satira degna di questo nome.

McKay ha la puntigliosità dell’abile biografo. A questa aggiunge un brio che sprizza originalità da tutti i pori. Questa accuratezza gli permettere di fare ciò che vuole con il suo protagonista e con gli altri personaggi, senza che questo suo “giocare” con la politica, ridicolizzando grandi nomi come Bush junior (Sam Rockwell), stoni con la costruzione del suo film, che come si diceva è molto elaborata.

McKay parte da lontano e con un lunghissimo flashback ci racconta di Dick Chaney, un uomo silenzioso, pessimo studente all’Università, facilmente incline all’alchol, che, spronato dalla moglie (Amy Adams) comincia a diventare sempre più ambizioso. Da semplice portaborse, infatti, diventerà Capo di Gabinetto per i Repubblicani. Malgrado i suoi iniziali successi c’è, però, sempre qualcosa a frenarlo: che siano il cuore malandato, o le sfortunate elezioni; tuttavia Dick Chaney non demorde e sfrutta gli iniziali svantaggi a suo favore.

La sua silenziosa pazienza (sottolineata dalla citazione iniziale del film “Guardati dall’Uomo silenzioso”) viene premiata, quando gli si presenta una ghiotta occasione, quella di diventare Vice Presidente del Secondo Governo Bush, un evento di per se non così vantaggioso, data la rappresentatività della carica di vicepresidente, fornito in teoria di nessun potere; ma Dick Chaney, sfruttando le fragilità e l’inesperienza di Bush junior, stipula un vero e proprio “contratto di Vice-presidenza”, che gli conferisce poteri mai visti, sulla base della teoria giuridica dell’Esecutivo Unitario, per cui quando si è in Stato di Guerra le facoltà del Vice presidente (e dell’esecutivo in genere) si allargano a dismisura.

Questa occasione si ingigantisce ancor di più, al momento del verificarsi del terribile attentato dell’ 11 settembre (con cui comincia il film). E’ qui che la satira di McKay si fa decisamente più dura e conturbante. Le vicende legate agli infarti e al cuore di Dick Chaney diventano presto metafora di come il potere plasmi “uomini dal cuore cavo”, che possono cambiarlo e sostituirlo da un momento all’altro senza risentire affatto del trapianto o del rigetto. E’ in questo baratro di onnipotenza, a lungo bramato dal Vice-ombra, che precipitano, infine, Dick Chaney e con lui gli Stati Uniti, che alimentano una guerra inesistente e si avvalgono di dinamiche pubblicitarie e sondaggi per appiattire la mente dei loro elettori. Il messaggio intrinseco del film è reso da un notevole finale, attraverso una mirabile scena in cui Dick Chaney si rivolge direttamente alla macchina da presa.

L’interpretazione di Christian Bale, che fino a quel momento, puntava soprattutto sui modi compassati, lenti, silenziosamente persuasivi e sui movimenti appesantiti dell’uomo ombra, quasi sottovalutati per la loro lentezza, muta radicalmente. Con grande aggressività Dick Chaney interpella lo spettatore, sfidandolo a criticarlo per il suo operato, difende le sue aberranti azioni e il suo cinismo, ed è come se gli Usa si guardassero allo specchio, confessando i propri peccati e insistendo nell’ammettere di non essersi mai pentiti. Il potere per il potere, rovesciare uno stato (l’Iraq) e creare un mostro, il terrorismo islamico, che secondo McKay è frutto dell’attenzione mediatica che gli Usa hanno dedicato ai fondamentalisti (proprio per giustificare l’attacco contro Saddam), per affermare a tutto il mondo di essere gli Stati Uniti d’America, ribadendo la propria potenza e supremazia, al punto da poter giocare con le vite di una nazione e scatenare per i propri “capricci petroliferi” una guerra, senza che nessuno possa contestare tale facoltà o potere. Una critica feroce quella di Mckay, che come il suo uomo nell’ombra, ha preparato con pazienza il suo film. Assolutamente da oscar l‘interpretazione di Christian Bale, che vi mette tutto se stesso: corpo, espressività, sguardo, gestualità in ruolo davvero difficile, perché operato tra le righe, nell’ombra.

A parere di chi scrive, per i temi trattati, l’acume con cui il film è girato, il messaggio di denuncia che lo pervade e l’efficacia di quest’ultimo, Vice meriterebbe la Statuetta come miglior film.

Più difficile il discorso per la migliore regia, dato il concorrente La Favorita di Lanthimos: in entrambi i casi siamo dinnanzi a stili registici originali, brillanti, unici e distintivi degli autori che li hanno adottati. Sarà una sfida ardua assegnare il premio. In corsa anche Roma di Cuaron.

Da assegnare senza dubbio l’oscar per la migliore sceneggiatura, come si diceva ottima e convincente, uno dei capisaldi della validità di Vice e della sua complessità, vivace e scorrevole, pur affrontando temi stratificati.

Francesco Bellia