Un’isola di plastica nel Pacifico: come sbarazzarcene?

Se pensate che sia uno scherzo o che sia sinonimo di “luogo di villeggiatura penoso” vi sbagliate di grosso. Esiste una vera e propria isola di nel Pacifico chiamata Pacific Trash Vortex ovvero “vortice d spazzatura nel Pacifico”. Le dimensioni di quest’isola non sono note, le stime sono varie e si pensa che l’isola di plastica abbia, nella migliore delle ipotesi, una dimensione pari alla penisola iberica . Nella peggiore delle ipotesi,invece, le stime sfiorano i 10 milioni di chilometri quadrati, una superficie superiore a quella degli Stati Uniti.

Come ha preso vita questo grosso salvagente galleggiante? Questa allarmante situazione ambientale si è originata negli anni ’50 quando la corrente oceanica che, attraverso il proprio movimento circolare, ha raccolto i detriti plastici convogliandoli in questa immensa distesa. Alcuni ricercatori oceanici, fra cui il capitano Charles Moore, hanno investigato a fondo sulla diffusione e la concentrazione della plastica nell’oceano. Moore ha stimato la presenza di un’impressionante quantità di plastica, fra le 3 e le 10 tonnellate.

La domanda che può sorgere spontanea è: come è finita tutta questa plastica nel bel mezzo dell’Oceano? La risposta può essere delle più semplici, imputando la colpa dei disastri ambientali alla negligenza umana. Altre volte le correnti oceaniche o il mare stesso ostacolano le rotte delle navi cargo facendo smarrire in mare le merci destinate al commercio e alla vendita, come accaduto alla nave Hansa Carrier nel 1990 che perse in mare 80 000 articoli di scarpe firmate! Un altro evento che recentemente ha danneggiato l’ecosistema del Pacifico, aumentando la quantità di plastica in esso dispersa, è stato il maremoto del Giappone del 2011 che ha favorito l’accumulo di ulteriori detriti nelle regioni pacifiche, portandoli a lambire addirittura le coste degli States.

Quello che però sta succedendo nell’Oceano Pacifico ha davvero dell’assurdo. I rifiuti biologici sono sottoposti alla biodegradazione, ovvero il processo che vede la loro scomposizione in singole molecole inorganiche, detriti di questo tipo possono quindi subire una decomposizione ed avere, di conseguenza, un impatto ambientale decisamente meno forte. I rottami marini e la plastica, invece, subiscono un processo di fotodegradazione a causa dei raggi solari e delle radiazioni elettromagnetiche e riducono gli oggetti a polimeri certamente più semplici, ma comunque molto difficili da smaltire. Il materiale di una bottiglia è si riciclabile, ma non per questo biodegradabile: il polietilentereftalato, comunemente noto come PET, infatti, è altamente inquinante se non appropriatamente trattato.

L’isola di plastica è diventata un vero e proprio ecosistema: la plastica è stata colonizzata da numerose forme di vita eterotrofi e autotrofi (rispettivamente i consumatori e i produttori della catena alimentare) e perfino da simbionti, ovvero quegli animali che vivono a contatto con altre forme viventi. In questa congerie di microorganismi, trovano spazio anche agenti potenzialmente patogeni e quindi pericolosi.
Proprio a causa della difficile degradazione, i frammenti di plastica possono essere ingeriti dagli animali che scambiano queste particelle per plancton introducendole nella catena alimentare. Quegli stessi animali che si nutrivano ignari nell’oceano, poi, potrebbero anche essere venduti dal pescivendolo sotto casa sconvolgendo la salubrità e gli equilibri alimentari. Cosa ancora peggiore sono i decessi causati dall’ingestione dei materiali plastici, come dimostra il caso in cui ben 20 kg di plastica sono stati trovati nello stomaco di una balena. Proprio per questo motivo dal 1996 ad oggi sono morte ben dieci balene, oltre ad animali di piccola taglia come tartarughe marine, pesci ed uccelli.

La rimozione della plastica dall’oceano, purtroppo, non è un’impresa semplice, tanto i costi quanto l’energia necessari risulterebbero fin troppo eccessivi ed avrebbero, paradossalmente, ripercussioni non indifferenti, in primis sull’ambiente. I ricercatori dell’Università dell’Oregon, infatti, hanno calcolato che per ricavare l’energia necessaria alla rimozione completa dei rifiuti  dal Pacifico, sarebbe necessario un quantitativo di petrolio pari a 250 volte la quantità dei rifiuti da smaltire. A complicare le cose, secondo recenti studi, sono oltre 11 milioni di tonnellate di plastica quelle che finiscono in mare ogni anno, producendo continuamente microplastiche dannose per l’ecosistema marino. In realtà una blanda speranza potrebbe esserci ed arriva dall’Olanda.

Il diciannovenne Boyan Slat ha intenzione di sovvenzionare una raccolta fondi per procedere alla pulizia del mare. Un’impresa che, a dirsi, sembra davvero fuori dall’ordinario. Di certo il progetto del giovane olandese può sembrare un’utopia impossibile da realizzare in poco tempo, ma Boyan Slat è convinto che, a lungo termine, questo metodo possa rivelarsi decisamente il più produttivo.

Il nome del progetto è Ocean Cleanup e si pone come alternativa ai convenzionali metodi di pulizia dei mari, decisamente costosi, che prevedono navi dotate di reti impiegate per trascinare ed ammucchiare tutta la sporcizia. Boyan, invece, ha ragionato in un’ottica totalmente opposta: perché muoversi verso i rifiuti e non viceversa? Un ragionamento del genere sembra assurdo , ma forse il giovane olandese ha visto lungo. L’invenzione di Boyan consiste in vere e proprie barriere fluttuanti che catturano i rifiuti passivamente, galleggiando sul pelo dell’acqua alla profondità di un metro e lasciando filtrare l’acqua. In questo modo i detriti plastici, che per costituzione non sono in grado di colare a picco, vengono intrappolati lasciando nuotare liberamente le creature marine al di sotto.

Il sistema non ha ripercussioni sull’ambiente e, in breve tempo e con i fondi necessari, potrebbe ricoprire una vasta area. L’investimento principale su cui punta il giovane Boyan, però, riguarda l’accertamento dell’affidabilità della tecnologia da lui inventata per evitare errori di vario tipo e danni all’ecosistema marino. Non solo, maggiori garanzie corrispondono a maggiori possibilità di ampliamento dello staff e ad una più coesa equipe di lavoro con cui portare avanti il progetto.