Totò: Il tormento e l’estasi di un comico metafisico

“Ho fatto un ammasso di schifezze”, ripete Totò negli ultimi anni sempre più cupo, amareggiato e menomato della cecità. Certo non tutti i suoi film, 97 per la precisione, sono capolavori assoluti: alcuni francamente brutti, in primis per la fretta dato che ne girava addirittura sei all’anno; altri sarebbero rimasti impalpabili se non fosse stato per il tocco del suo genio, che con improvvisazioni fulminanti riusciva a rendere appetitose trame più che insulse. Forse i migliori non sono né i primi, dove però con la mimica di una macchinetta umana faceva piuttosto ridere, né gli ultimi nonostante il visionario Uccellaci e Uccellini e il poetico episodio Che cosa sono le nuvole tratto dal film “Capriccio all’italiana”, diretto da Pier Paolo Pasolini. Qui la critica “impegnata” sembra ricredersi. Ma è tardi. Anzi quel successo tardivo lo deprime vieppiù, come se del significato nascosto dei suoi film non si fosse accorto nessuno. “Sarei potuto diventare un grande attore e invece non ho fatto nulla di buono”, dice spesso a sé stesso sconsolato, quasi fingendo di cominciare una nuova vita mentre invece sta terminando la vecchia. Non sa che a funerali avvenuti tutti, persino  Federico Fellini, lo magnificheranno mentre saranno i suoi critici a essere dimenticati, non lui. Chissà se seduto nel bar di quell’angolo di cielo dove si ritrovano gli artisti darà sfogo al sonoro sarcasmo della sua risata oppure appollaiato su una di quelle nuvole come quelle del suo ultimo film si abbandonerà a un rassegnato sospiro per lenire il dispiacere di essere snobbato dai grandi registi e dalla maggior parte della critica che in questa lunghissima lista di variegate interpretazioni, riconosce ad appena una ventina di film il riconoscimento al di là delle quattro stelle della sufficienza. Di certo quelli che hanno meglio coniugato valore artistico con successo di pubblico sono stati, a parere pressoché unanime, gli indimenticabili e tra questi sottolineamo:

“Guardie e ladri” (1951) di Steno e Monicelli, una pellicola che nell’inseguimento tra il rappresentante della legge e lo scalcagnato fuorilegge e nelle scenette familiari con Ave Ninchi, rappresenta lo spaccato sociale dell’Italia della ricostruzione, dove Totò viene insignito del titolo di miglior attore e la sceneggiatura dei due registi assieme a Flaiano, Fabrizi e Brancati è premiata come la migliore al Festival di Cannes.

”Totò a colori” (1952) di Steno, lo Zenit della commedia nostrana del dopoguerra che racchiude un prezioso campionario dei migliori sketch teatrali di Totò concentrati in perle di comicità verbale come la discussione nel vagone letto con l’onorevole interpretato dall’impagabile Mario Castellani, oppure la brillante pantomima dello sputazzo nell’occhio nella villa degli esistenzialisti a Capri, passando per la fragorosa imitazione della maschera di Pinocchio e chiudendo con la sincopata e indiavolata direzione dell’orchestra in fuga.

Siamo uomini o caporali?” (1955) di Camillo Mastrocinque, dove la sua filosofia di vita è ben riassunta e l’attore illustra la fondamentale dialettica uomo/caporale. Il mondo, sintetizza Totò, è diviso in due categorie, quella maggioritaria degli uomini, costretti a lavorare e a faticare senza mai avere una soddisfazione mentre dall’altra parte vi è la minoranza dei caporali, depositari di un potere assoluto, privilegiati e favoriti.

“Totò Peppino e la malafemmina “(1956) sempre di Mastrocinque, un cult movie del tempo passato con tempi comici ai confini della realtà infarcito da gag dai buoni sapori casarecci. Un film ritmato da un esilarante Totò che si avvale dalla complicità a fior d’acqua dell’ottimo Peppino De Filippo: la scrittura della lettera, l’arrivo a Milano con indosso abiti da cosacchi, il colloquio col vigile sono scene che hanno fatto la storia del cinema italiano.

Insieme, oltre questo gioiellino, i due hanno interpretato la bellezza 14 film tra cui: “Totò Peppino e i fuori legge”; “Signori si nasce”; “Totò, Peppino e la dolce vita”; “La banda degli onesti” tanto per citarne alcuni di quelli che, per dirla nel gergo dell’illustre attore napoletano, ci hanno fatto scompisciare dalle risate.

Una coppia, quella di Totò e De Filippo, lungimirante in quanto a ironia e attualità. Sono stati davvero tanti i partner comici che hanno affiancato il Principe de Curtis nel corso della sua carriera: da Aldo Fabrizi a Nino Taranto, da Fernandel fino ad Anna Magnani. Ma il sodalizio con Peppino de Filippo è stato probabilmente quello più riuscito. Il successo di questa coppia comica sta probabilmente nell’aver saputo raccontare in maniera scanzonata la società degli anni tra il dopoguerra e il boom economico degli anni ’50, mettendo in scena un ritratto della società di quegli anni (in bilico tra vecchio e nuovo mondo) con ironia e disincanto.

Diceva Totò: “Io posso far ridere, ma se ho vicino a me uno che fa ridere più di me, anch’io faccio ridere di più». E il sodalizio con Peppino ci ha dimostrato che non mentiva, regalandoci alcuni fra i momenti più esilaranti della storia del cinema italiano”.

Alla fine della giostra però scorrendo fino in fondo questa lunga lista di film, scopriamo che, probabilmente, tra quelli meno visti si annidano titoli dai notevoli significati come ad esempio: Il comandante di Paolo Heusch, grande metafora sulla vecchiaia; Sua eccellenza si fermò a mangiare di Mario Mattoli, un’inebriante presa in giro del potere; Totò e Carolina di Mario Monicelli un film femminista ante litteram; o per dire i 5 minuti di Il più comico spettacolo del mondo, regia del sodale Mattoli, in cui Totò recita da brivido la preghiera del clown;” C’è tanta gente/che si diverte/ a far piangere l’umanità/noi dobbiamo soffrire per divertirla. Manda qualcuno su questo mondo/capace di far ridere me/come io faccio ridere gli altri”. Per chiunque la reciti è un’invocazione “A prescindere”, riferendosi sempre a uno dei suoi famosi modi di dire.

Riservato e malinconico, mai mondano, ma sempre gentile e generoso con tutti i bisognosi  a ricordo della sua povertà ecco il Totò autentico, vicino agli ultimi del mondo quello che emerge nelle sue opere benefiche e nell’assistenza ai bimbi disagiati (si prodiga nel mantenimento di orfanotrofi e centri assistenziali), elargisce denaro a destra e a manca facendosi portare la notte nei quartieri popolari per infilare sotto usci buste anonime gonfie di banconote per garantire risvegli da favola a gente che non saprà mai chi ringraziare. “Io sono un uomo all’antica. Io appartengo al secolo scorso, anzi, che dico, al secolo delle crociate. Il mondo moderno, il mondo di oggi per me non c’è, non esiste. Non lo vedo, non mi piace. Detesto tutto di esso: la fretta, il frastuono, l’ossessione, la volgarità, l’arrivismo, la frenesia, le brutte maniere, la mancanza di rispetto per le tradizioni, le stupide scoperte. Per questo vivo per conto mio, in un mondo mio, da isolato. Un mondo per bene. Lavoro, torno a casa, e mi chiudo qui dentro. Sono pessimista, solitario, alieno dalla mondanità, odio i rumori, mi piace parlare poco…”. Senza nascondersi dietro parole di facciata nel 1966, Totò aveva rivelato ai lettori del settimanale Oggi, il lato meno scontato e più privato della sua vita.

Ricco, famoso, mai felice. Tutto il contrario della sua icona ridanciana, in preda a uno sconforto senza fine e avvolto da un oscuro presagio, un anno dopo, poco prima di morire pronuncia il suo epitaffio uccidendo il suo scomodo e in qualche occasione inopportuno alter ego:” Totò non mi piace. Ride sempre mentre io non rido mai… Quando ascolto storie divertenti mi limito a sorridere un po’ per educazione e un po’ per non assomigliare troppo a Totò. Resto sempre il principe De Curtis, un gentiluomo. Invece Totò è un villano: quando parla agita le mani, strizza l’occhio. Ha mai notato come veste? Ridicolo… Totò è greve anche nelle donne. Le vuole formose, cariche di lustrini. Gli piacciono le ballerine d’avanspettacolo. Il principe corteggia creature sofisticate, evanescenti. Ama la classe»

Antonio e Totò. Sono due, ed è uno allo stesso tempo. Però il suo ricordo rimane scolpito sulla pietra angolare del tempo perché non ha mai smesso di farci sentire la sua presenza, benché il suo nome negli annali del mondo dello spettacolo abbia oltrepassato i 120 anni di età. Per ripercorrere quel secolo sarà adesso opportuno un bel passo indietro e ci vuole anche un bel po’ di fantasia storica per immaginare i diversi contorni del quartiere rione Sanità zona non facile, allora come adesso. Qui in una casa, che ora non c’è più, situata al secondo piano del numero civico 109 in via Santa Maria Antesaecula, la mattina di martedì 15 febbraio 1898 alle 7,30 nasce un bimbo che all’anagrafe risulta col nome di nome Clemente Antonio, figlio di Anna Clemente e di N.N., poiché frutto della corrispondenza d’amorosi sensi tra una popolana di umilissime origini e il marchesino Giuseppe De Curtis rampollo di una casata decaduta, che in un primo momento vuole tenere segreta la scandalosa liaison.

La storia d’Italia s’intreccerà spesso con lo straordinario cammino di un uomo speciale durato quasi 70 anni chiamato Totò: nomignolo in principio dovuto a un vezzo della madre che poi diventerà il suo nome d’arte anche quando nel 1921 sarà riconosciuto come Antonio De Curtis dal padre. Un viaggio cominciato nella Napoli marinara, canterina e romantica del primo Novecento dove uno scapestrato ragazzino, detto O’ spione, si divertiva a sbeffeggiare il prossimo dotato com’era di un innato istinto particolare: preso di mira un qualsiasi individuo sapeva assimilare così bene le sue caratteristiche psicofisiche da riprodurne come carta assorbente i movimenti naturali trasformandoli in veri e propri tic. Il suo primo palcoscenico non fu di legno bensì di duro selciato: un teatro su cui egli non interpretava ma recitava la vita.

Terminate le elementari, venne iscritto al collegio Cimino, dove per un banale incidente con uno dei precettori, che lo colpì involontariamente con un pugno, il suo viso subì una particolare conformazione del naso e del mento; un episodio che caratterizzò in parte la sua “maschera”. Successivamente adottato quel giovanotto dal viso sghembo che portava il titolo nobiliare di Principe, un titolo che, come riconosceva lui stesso, non gli diede mai da mangiare, si rese conto che la sua era una bellezza oggettiva, ma al suo fascino in poche resistevano, specie ora che attratto irresistibilmente dalla vita artistica cominciava frequentare il teatro di rivista dove tra un’avventura e l’altra esprimeva il suo debordante talento. Ma tanto va la gatta al lardo che ci lascia lo zampino e fu così che la sciantosa Liliana Castagnola, prima fece breccia nel suo cuore e poi lasciò nella sua mente il marchio indelebile del rimorso. Successe che Totò che diventato vulnerabile a causa della sua gelosia tentò di allontanarla ed ella rispose togliendosi la vita. In suo perenne ricordo egli chiamò cosi la figlia avuta da Diana Rogliani.

Benché l’avanspettacolo negli anni trenta fosse più che mai sulla cresta dell’onda, Totò ebbro di successo si fece ben presto sedurre dalla sirena del cinema e nel 1937 inquadrato dalla macchina da presa debuttò nel film “Fermo con le mani” di Gero Zambuto.

Da qui all’eternità artistica che coincide con l’eredita spirituale datata 15 aprile 1966, su cui scorrono i titoli di coda di una vita che talvolta coincise in parallelo con il contenuto di certi suoi film: “47 morto che parla”, pungente paradosso sull’avarizia umana; ”Miseria e nobiltà”, una farsa che ricorda gli stenti del periodo giovanile; ”L’oro di Napoli”, dove nell’episodio de “Il guappo” egli riflette la sua accertata probità; “I due colonnelli”, istintiva ribellione alla ottusa mentalità militaresca; “Arrangiatevi” il leit motiv che accompagnò la sua generazione incastrata tra due guerre; “Totò sexy” in cui lo stralunato Erminio Macario funge da perfetto contraltare per accentuare la naturale sfrontatezza cinematografica di Totò verso le donne; e ” Gli onorevoli”, un film in cui da monarchico convinto bacchetta i pericolosi qualunquisti della politica.

Totò è stato anche tutto questo e si descrive da solo, a volte in modo semplice e disincantato, altre in modo ironico e corrosivo, altre ancora quasi patetico preso dall’incanto della fantasia e infine malinconicamente adagiato sulla dolce tenerezza del rimpianto che per reazione alimenta tanti ricordi: alcuni più che opportuni per filosofare sul significato della vita e della morte. La sua canzone più carnale” Malafemmina” opposta alla spiritualità della sua poesia più famosa: “A Livella”.

Vincenzo Filippo Bumbica