La rivolta consiste nell’amare un uomo che non esiste ancora
Tutt’oggi ci si interroga sul significato ultimo di “rivoluzione”; uno scardinamento viscerale dei dogmi precedenti, con una tensione all’innovazione e al cambiamento. Una rivoluzione di idee, stati d’animo e percezioni; essere innamorati di qualcosa che ancora non c’è: essere innamorati di un’idea.
Cinquant’anni dopo la rivoluzione del Sessantotto si continua a discutere di quello che ha significato, di quello che ha lasciato. Una rivoluzione senza precedenti che ha radicalmente modificato lo stile di vita, unito nella lotta studenti e operai, mutato il diritto di famiglia, gettato solide basi per la nascita del femminismo e lo statuto dei lavoratori.
Sorto nella metà degli anni Sessanta negli Stati Uniti con le proteste contro la guerra in Vietnam, – la nascita del movimento hippy – il Sessantotto è stato un vento contagioso, una tempesta che ha investito rapidamente l’Europa Occidentale e ha avuto il suo apice nel breve ma intenso Maggio Francese, proprio quel maggio che ha ispirato il grande De André.
Un movimento sociale e politico di protesta per i diritti civili, che ha rivelato le contraddizioni delle società capitaliste avanzate. Un mondo in rivolta che sembra spento, attaccato e osannato, che non ha mai smesso di far discutere.
Ad accendere la miccia sono stati gli studenti universitari. Ragazzi dai volti freschi ma dal cuore pesante, che si sono sentiti in dovere di plasmare – o per lo meno provarci – il mondo in cui vivevano secondo i loro bisogni; un mondo che purtroppo era tutt’altro che adatto a loro.
Passeggiando per strada, in un bar, in una libreria, si provi ad osservare in viso i ragazzi presenti: sguardi furbi e movenze veloci, risate troppo forti ed espressioni tipiche di chi ha vent’anni, tutta la vita davanti e nessuna preoccupazione di potersi ritagliare un posto nel mondo. Sono stati proprio quei volti, quelle movenze e quelle risate, cinquant’anni fa, a capire che invece un posto nel mondo non era poi così facile da occupare.
Le prime avvisaglie di instabilità intestine si ebbero nel 1966, quando il giornale studentesco del liceo Parini di Milano – La Zanzara – pubblicò un’inchiesta sulla libertà sessuale, a seguito della quale i redattori Marco De Poli, Claudia Beltramo Ceppi e Marco Sassano e il preside dell’Istituto vennero processati.
Successivamente la prima università italiana a venir occupata è stata quella di Trento e poi nel 1967 anche la Cattolica di Milano e la Facoltà di Lettere di Torino, fino al 1 febbraio 1968 quando venne occupata la facoltà di lettere a Roma. L’onda lunga che ha visto sollevarsi tutte le Università italiane è arrivata con un corteo di protesta l’1 marzo a Valle Giulia, sede della facoltà di architettura, vicino a Villa Borghese. (In Italia il movimento di protesta era partito con due anni d’anticipo ed è durato più a lungo di quello francese)
Dalle sedi della cultura la rivoluzione è poi dilagata per le strade, arrivando fino alle fabbriche. La contestazione è passata di bocca in bocca, accendendo il fervore nei cittadini italiani, aprendo loro gli occhi sulla condizione del loro (nostro!) Paese. Nell’Italia del “miracolo economico”, dell’individualismo e della corsa ai consumi, i giovani si sono sollevati spontaneamente tutti insieme per un mondo più autentico e giusto.
Immenso l’impatto mediatico e violenti gli scontri con la polizia; anche personalità del mondo artistico e letterario hanno preso parte alla contestazione, come Giò Pomodoro, Arnaldo Pomodoro, Ernesto Treccani Gianni Dova e tanti altri, che occuparono il Palazzo della Triennale a Milano.
Dalle Università, dove gli studenti rivendicavano l’accesso a tutti, non solo a chi aveva frequentato il liceo classico o scientifico, come era previsto allora; alle famiglie, di cui si combatteva l’autoritarismo, alla rivendicazione controculturale, quello spirito libertario, anche nei rapporti privati, si spostò dalle università alle fabbriche, con la richiesta della riduzione dell’orario di lavoro e di un salario uguale per tutti.
“Lavorare meno lavorare tutti“, uno degli slogan cardine del cosiddetto autunno sindacale (1969) che vedeva protagonisti i nuovi gruppi rivoluzionari antagonisti al Partito Comunista, come Potere Operaio, Lotta Continua, Avanguardia Operaia e Il Manifesto.
Una lotta nata giovane per scuotere un paese all’apparenza altrettanto giovane e all’avanguardia, ma che dietro tale maschera nascondeva in realtà dogmatismi privativi e arroganti.
La rivoluzione del Sessantotto ha cambiato per sempre il volto mondiale, europeo e nello specifico quello italiano; la situazione odierna pare sconcertante in ottica di prese di posizione e malcontenti.
L’Italia ha indossato una maschera nuova di zecca, su cui vi è raffigurato un volto sorridente, con gli occhiali da sole e l’iWatch al polso; l’innovazione tecnologica – con la conseguente velocizzazione di ogni tipologia di rapporto – ha radicalmente cambiato il volto della comunicazione e dell’informazione, e di conseguenza la domanda sorge spontanea: i giovani d’oggi sarebbero in grado di sostenere una rivoluzione?
Sicuramente – e giustamente – gli strumenti a disposizione sarebbero diversi, ma il timore è che lo siano anche l’intraprendenza, il coraggio, lo spirito d’iniziativa e soprattutto la coscienza civica. Augurandosi che di una rivoluzione non se ne senta il bisogno e avendo fiducia nella generazione odierna, come direbbe De André:
[…] provate pure a credervi assolti
siete lo stesso coinvolti.