Ormai in Tv non sentiamo altro che spot di prodotti alimentari che sottolineano il loro non utilizzo dell’olio di palma, olio vegetale ricavato dalla palma da olio. Si tratta di un ingrediente di uso diffuso dell’industria alimentare, tanto che la fornitura e la distribuzione annua su scala mondiale si attesta su 66,22 milioni di tonnellate per l’olio di palma e 7,33 milioni di tonnellate per l’olio di semi di palma. Diversi sono gli studi che hanno dimostrato che questo prodotto può essere dannoso per la salute e per l’ambiente, ma quello che pochi hanno notato è che fa male anche ai diritti.
Amnesty International, infatti, ha smascherato la grande bugia del “palma sostenibile certificato” da Rspo (Roundtable on Sustainable Palm Oil), prodotto in Indonesia. Il rapporto denuncia lo sfruttamento del lavoro della cosiddetto “popolo del palma”, costretto a sgobbare senza sosta per raccogliere frutti 20 metri di altezza, servendosi di un’asta che pesa 12 chili. Come se non bastasse, anche i bambini devono intervenire per aiutare i loro padri, i quali, se entro fine giornata non riescono a consegnare una tonnellata di raccolto, perdono una quota della già misera paga. Rinuncia all’infanzia, alla scuola, ai giochi, ad una vita normale: ecco cosa perdono i bambini, costretti ad affrontare un lavoro che strema il fisico e brucia le mani. I bambini impiegati hanno meno di 15 anni, alcuni hanno iniziato a lavorare a 8 anni, nonostante la legge indonesiana stabilisca in 15 anni l’età minima del lavoratore e in 18 anni l’impiego in attività pericolose per la salute psicofisica e per lo sviluppo sociale del giovane.
Il rapporto Amnesty, attraverso le testimonianze di 120 lavoratori, impiegati nelle piantagioni collegate alla Wilmar, colosso indonesiano nel commercio di olio di palma, racconta le loro condizioni di lavoro: oltre a maneggiare un bastone di 12 kg per staccare i grappoli da piante alte fino a 20 metri, sono costretti a stare chini molte ore al giorno per raccogliere da terra i grappoli, il cui peso varia da i 10 ai 25 chili. Ogni grappolo può fruttare da 1000 a 3000 semi utili, trasportati al punto di raccolta con carriole su un terreno dissestato. Entro 24 ore le bacche arrivano al frantoio, dove l’olio estratto viene consegnato alle raffinerie. E’ proprio qui che avviene la raffinazione a elevata temperatura, causa dei contaminanti cancerogeni e genotossici che residuano nell’olio di palma impiegato anche negli alimenti, come segnalato dall’Efsa, l’Autorità europea per la sicurezza alimentare.
Un lavoro così usurante è pagato a cottimo con salari da fame, nonostante le norme nazionali vietano questo tipo di pratiche. L’Indonesia, infatti, fa parte dell’ILO, l’Organizzazione Onu per la tutela dei diritti dei lavoratori, ma l’assenza di controlli in un settore controllato da colossi incontrastabili, rende praticamente nullo qualsiasi intervento. Violazioni simili si verificano anche nei confronti degli addetti alle unità di manutenzione degli impianti, per lo più donne, mansione faticosa e dannosa per la salute, a causa dell’utilizzo di sostanze tossiche come il paraquat.
Non è stato facile riuscire a rompere quel velo di omertà esistente tra i lavoratori, timorosi di perdere il lavoro. Quello che denuncia Amnesty è un vera e propria tragedia umanitaria, di cui tutti sono complici e responsabili. Forse è finalmente arrivato il momento che la comunità internazionale e le autorità governative smettano di essere dei complici silenziosi di questa mattanza e inizino a difendere realmente i diritti dei lavoratori e, soprattutto, dei bambini.