“O Capitano, mio Capitano”, cominciano così gli stupendi versi della toccante poesia di Walt Whitman che sottolineano mirabilmente la scena finale del film: ”L’attimo fuggente”. Essi sono recitati in piedi sui banchi da tutti gli alunni commossi e grati con una enfasi particolare: un moto dell’anima spontaneo e significativo per salutare e rendere onore al loro impareggiabile insegnante costretto dalle circostanze della vita ad abbandonarli.
Tutti i settantamila convenuti allo stadio romano domenica 28 maggio 2017 metaforicamente erano come quei ragazzi: come loro all’unisono scandivano col il nodo alla gola e le lacrime agli occhi il nome del loro capitano appiccicandogli addosso tutto il repertorio canterino e il colorito frasario coniato apposta per lui in un quarto di secolo.
“Non puoi uccidere il tempo col cuore”, affermava David Foster Wallace, il grande scrittore e giornalista americano contemporaneo amante dello sport per la bellezza del suo senso estetico e per la sua travolgente dose di emozionalità che sfocia in irresistibili e inimitabili dinamiche esistenziali.
Arrivato quasi senza accorgersene a quaranta anni suonati, perché quando si gioca per il piacere di giocare il tempo diventa circolare e si resta ancora bambini, Francesco Totti si ritrova uomo adulto che si scontra con questa inconfutabile e , ahimè, scomoda verità. Lui che della sua vita ha fatto una questione di scelte legate in primis agli impulsi del sentimento, accettandone sempre più nel bene che nel male le sue inevitabili conseguenze, ora si rende conto che la sostanza del suo avvenire passa dall’accettazione totale di un certo tipo di solitudine: non potrà più condividere le regole scritte per il gruppo, ma soprattutto quelle non scritte imposte dal suo ruolo di leader carismatico.
Totti non giocherà più e se lo dovesse fare, speriamo di no, non più nella sua Roma con il giallorosso tatuato sulla pelle. I migliori anni della nostra vita sportiva, tifando da sempre per la “Maggica”, sono quelli trascorsi idealmente sul campo assieme a lui e ai suoi compagni di squadra, dove a ogni palpito del loro cuore abbiamo dedicato un pensiero rosso d’amore che poi si trasferiva soprattutto a Lui che è stato il suo profeta, nel tentativo (riuscito) di conquistare lo scudetto e di darle la necessaria continuità di rendimento tipica di una grande squadra, nel ricordo lontano di quella del 1982-83 che come tutte le più belle cose visse solo un anno di fiori e rose.
Ne ha fatta di strada quel ragazzo nato nel 1976 nel quartiere di Porta Metronia, uno dei Sancta Santorum del tifo romanista e oggi che è arrivato al capolinea dobbiamo raccontare la sua storia sportiva che s’intreccia con le vicende umane di una realtà sociale che cambia repentinamente il mondo sportivo. Via via però che scorrono le pagine ci accorgiamo che questo romanzo sorvola i connotati di una fiaba a lieto fine per divenire leggenda.
Solo nel suo contesto dorato può infatti esistere che quest’uomo sia un mito, uno dei magnifici sette assieme a Paolo Maldini, Franco Baresi, Sandro Mazzola, Giacinto Facchetti, Giuseppe Bergomi e Gianpiero Boniperti, l’ultimo rimasto a sventolare per sempre la stessa bandiera, alla fine ammainata con onore a testimonianza di una fede sportiva, figlia di un amore totale e senza limiti, durata più di 25 anni.
Ahimè, il tempo passa e le cose cambiano in fretta in obbedienza assoluta alle spietate leggi del business. Gli ultimi bagliori del vecchio football con tutto il suo aspetto romantico divampano solo per il ricordo di alcune scelte sentimentali dell’indiscusso fuoriclasse giallorosso che perciò si è pure beccato l’accusa di essere un provincialotto che non voleva misurarsi fuori dei confini del giardino di casa, circondato com’era dall’ovattato universo romano che lo proteggeva: è molto difficile far capire a chi è abituato a non aver mai torto che qualche volta può avere ragione e che il calcio dunque, nella sua affascinante complessità, non può e non deve essere solo una sfarzosa fiera delle vanità con l’arrogante ostentazione di vittorie e successi a più non posso ma che, ancora una volta, il sentimento possa diventare l’ultimo argine prima che le fragorose invasioni di multinazionali straniere lo trasformino sempre più in un violento e inumano Rollerball.
E siccome il destino di un uomo è il suo carattere, il buon Francesco, sotto sotto, ne ha dimostrato tanto mettendosi alle spalle queste e altre ridicole accuse diventando al contempo una specie di uomo dei sogni per l’impagabile soddisfazione di vincere o tentare di farlo per i colori della sua città.
Fin dal suo primo apparire sulla scena calcistica, questo giovane virgulto cresciuto a pane e pallone dimostrò infatti le qualità non comuni del predestinato, accompagnate da una feroce determinazione, a prima vista quasi insolita, a dispetto delle sue gentili fattezze: biondino delicato e timido, sul campo verde si trasformava in un tignoso e competitivo avversario.
Gli Dei del calcio che, alle volte, quando vogliono punire un uomo gli regalano troppo talento per lo sfizioso piacere di metterlo alla prova nella segreta speranza del puro divertimento a essere smentiti, questa volta topparono in quanto alle promesse seguirono i fatti: il 28 marzo 1993 appena sedicenne Francesco Totti esordisce in serie A sotto la guida di Carletto Mazzone e in un irresistibile crescendo di ottime prestazioni si guadagna l’affettuoso appellativo di “Er Pupone”.
Passano 786 presenze totali, 250 reti in serie A, secondo cannoniere di tutti i tempi alle spalle di Silvio Piola, che diventano 307 in totale considerate le varie maglie azzurre: i numeri che non dicono tutto tranne la verità, testimoniano la grandezza indiscussa di un calciatore che addirittura li travalica per l’immenso significato che ha avuto nell’immaginario collettivo popolare, romanista, nazionale, internazionale e addirittura stracittadino e di quell’appellativo tra l’ironico e il borgataro non rimane che nulla. Oggi Francesco è il capitano, il mio capitano per tutti quelli che amano il colore del sole e del cuore oltreché un condottiero universale per tutto il pianeta calcio.
Il suo degno congedo, lo pone nell’ideale Gotha dei più grandi calciatori di sempre: da sublime centrocampista si è trasformato in un implacabile goleador; interprete impareggiabile di questo cambiamento di ruolo, ha continuato lo stesso a dispensare giocate memorabili, poiché istinto e intuito lo portavano a usare il cosiddetto suo terzo occhio (indice di genialità assoluta condivisa con Gianni Rivera) come un radar per abbattere le difese avversarie, con giocate impensabili per quasi tutto il resto della truppa pallonara. In più, dotato di un tiro secco e potente che poteva diventare dolce e irridente (il famoso cucchiaio, il suo marchio di fabbrica sfoderato, pensate, per la prima volta agli Europei del 2000 per beffare su rigore l’allampanato Van De Sar), Francesco infilava i portieri anche con soluzioni balistiche incredibili: preciso nel calciare punizioni e freddo nel tirare rigori decisivi, vedi quello tirato, questa volta di forza, contro l’Australia ai mondiali del 2006, risultava così determinante poiché raddoppiava il suo ardore agonistico eccitato anche da quella fascia bianca al braccio.
Non c’è stata mai differenza tra questo eccellente calciatore e la normalità della sua vita perché Totti è stato un uomo semplice che non si è mai preso troppo sul serio: il suo passeggiare commosso tra il prato verde dell’Olimpico e la sua amorevole lettera di commiato hanno sottolineato, oltre alle soddisfazioni sportive e famigliari, ancora una volta la sua grande umanità frammista a una fresca vena di sana ironia.
“Il tempo è un grande autore: trova comunque il perfetto finale e un buon attore deve scegliere sempre il momento giusto per uscire di scena”. Pensieri e parole del grande Charlie Chaplin a parafrasare il nostro ricordo personale di Francesco Totti .