Marlon Brando, il talento selvaggio di un attore geniale

I bambini imparano ciò che vivono e quel bambino criticato dal padre aveva imparato a condannarlo mentre stimolato dalla madre, viveva della sua approvazione.
Il piccolo Bud, così soprannominato per distinguerlo da Marlon Brando senior, non faceva eccezione, anzi.
Odiava di un sordido rancore quel genitore dall’animo ruvido: un piazzista ubriacone, violento e donnaiolo, che vestiva il suo ruolo di giacche di tweed e affidava la sua autorità al fumo della pipa.
Adorava invece di un amore incondizionato la madre Dorothy Pennebaker, una donna depressa e dispersa negli oscuri meandri dell’alcolismo, che viveva approvandosi nei frantumi di specchi di un passato da attrice dilettante e in conseguenza insegnava recitazione.

L’uno, come tutti gli uomini che non devono chiedere mai, così poco incline alla diversità  contrastava l’altra, quando svaporata stimolava l’estro e la fantasia del figlio che per compiacerla imitava accenti, mimava camminate e riproduceva versi di animali.
Queste capacità ampliate,rivedute e dilatate nel tempo divennero professione e quando nel 1954 questa sua originaria musa ispiratrice venne a mancare, Marlon Brando già diverso nel coltivare le sue inconsuete passioni private, si accorse di essere anche un tipo di attore per un pubblico più vasto, ma sempre figlio di quel desiderio di essere diverso nell’abitudine di osservare le persone per strada e analizzarle. “Se non avessi avuto la fortuna di diventare attore – diceva di se – sarei divenuto un truffatore”. La sua fortuna si chiamò Stella Adler e l’incontro con l’attenta studiosa del Metodo Stanislavsky, fu per per lui fondamentale.
Anche per questo la sua recitazione che già riluceva di un’istintiva e personale caratterizzazione si arricchì di una profonda introspezione e d’incontenibili pulsioni psicologiche. Accentuata da un magnetico carisma essa risaltava di un originale sottofondo fatto di piccoli gesti e impercettibili movenze che facevano capolino anche quando lo riprendevano di spalle: allora la sua postura lasciava immaginare i sentimenti dell’uomo, ciò che il suo volto esprimeva in quella situazione.

Così come pochi, è stato in grado di rappresentare sullo schermo l’altra metà della luna: Il lato oscuro della natura umana, quella nascosta che quando rivela spregevole cattiveria, inferta o subita, diventa il nero di seppia che nasconde l’anima.
Anticonformista, insofferente e misterioso è riuscito magicamente a entrare nell’immaginario collettivo seducendo per almeno un ventennio così tante schiere di spettatori poiché esprimeva la bellezza totale e assoluta dell’uomo che andava oltre questi canoni per sconfinare in un’ambigua e affascinante diversità. Numerose furono le donne rapite dal suo modo quasi brutale d’essere virile, quasi tutte affascinate da quel simbolo risplendente d’alternativa mascolinità, ma anche giovani adolescenti insofferenti alle regole attratti dalla sua voglia di ribellione e adulti pronti a emulare il suo apparente disinteresse per l’altro sesso: maschi contro femmine di allora uniti da un comune denominatore.

Poco più che ventisettenne, quell’ombroso nativo di Omaha, con i suoi tratti decisi scolpiti da una munifica madre natura irruppe sul grande schermo nel 1951: sulla scia del capostipite dei cosidetti ribelli di Hollywood Montgomery Clift, fece leva sul suo immenso talento per disegnare la figura di Stanley Kovalski in tutta la sua complessità di uomo e diretto dal suo mentore Elia Kazan, bello come il sole con la sua t-shirt chiazzata di sudore spupazza la fragile Vivien Leigh in “Un tram che si chiama desiderio”; rinnovò la collaborazione con quel regista per impersonare il baffuto rivoluzionario Emiliano che combatte per la rivoluzione assieme ad Anthony Quinn in “Viva Zapata”; impeccabile Marco Antonio declama mirabilmente accanto al cadavere la solenne orazione funebre in onore di Giulio Cesare nell’omonimo film; poi scorrazza in moto: cappello militare e nero giubbotto di pelle cavalcando con il suo grugno imbronciato le inquietudini di una generazione in “Il selvaggio”; e riscatta un’esistenza adeguata al rispetto delle sporche regole criminali in “Fronte del porto”.

Per questa viscerale immedesimazione Brando nel 1954 vinse l’Oscar con la regia, ancora una volta del magistrale Elia Kazan che così lo definì: C’era in lui qualcosa di miracoloso, gli spiegavo cosa volevo e ascoltava, ma la sua attenzione era così assoluta che parlargli era un’esperienza stupefacente. Non rispondeva subito, ma se ne andava e poi faceva qualcosa che spesso mi sorprendeva. Era come dirigere un animale geniale, Brando aveva tutto: una sensibilità e una violenza terribili, una grande intelligenza e un’intuizione estrema. E’ bisessuato come deve esserlo un’artista: delle cose ha una percezione al contempo maschile e femminile.

Si cominciava a disegnare la figura di un artista a tutto tondo capace di sprazzi di pura genialità nell’interpretare ogni genere di personaggio: in quell’esaltante triennio furono questi protagonisti sfrontati, scomodi e tormentati a rappresentare anche il rifiuto delle regole imposte dalla mentalità perbenista e bigotta dell’America anni 50.

Poliedrico com’era Brando, si divertiva pure nei ruoli ironici e brillanti con sfumature romantiche e a volte perfino sentimentali. Eccolo nei panni dello lo scanzonato Cielo Masterson che attenta alla virtù della rigida sorella dell’esercito della salvezza Sarah (Jean Simmons) in “Bulli e pupe”; vestire la divisa di ufficiale d’aviazione che s’invaghisce di una dolce ballerina giapponese, bella e delicata come il fiore di pesco in “Sayonara”; impersonare un impenitente play boy che sfida a colpi di seduzione il raffinato rivale David Niven ne I due seduttori “; e infine finto burbero indossa l’austera vestaglia del maturo ambasciatore alla ricerca del perduto splendore che viene prima irretito e poi conquistato dall’attraente Sofia Loren in ”La contessa di Hong Kong”.

Soprattutto celebrale, il divino Marlon svetta solitario e inarrivabile in alcune delle sue più intense e irrequiete interpretazioni: nelle smorfie di disgusto del biondo ufficiale nazista che deve fare i conti con l’orrore della guerra scatenata da una folle ideologia in “I giovani leoni”; nella tragica rassegnazione di un disadattato perdente avviluppato nella fatale tresca con una fedifraga smaniosa(la strepitosa Anna Magnani) di “Pelle di serpente”; nel furore prima a stento represso e poi fragorosamente esploso del giovane ufficiale Christian Fletcher nei confronti del crudele capitano Bligh, l’eccellente Trevor Howard di “Gli ammutinati del Bounty”; nel piglio orgoglioso dell’onesto e coraggioso sceriffo di un tipica cittadina di provincia in “La caccia”; nelle paranoie omicide di uno sfaccendato generale di fronte all’avvenenza della disinvolta moglie, Elizabeth Taylor, in ”Riflessi in un occhio d’oro”;nel cinismo freddo e calcolatore del colonialista William Walker di ”Queimada”; nella sottile perversione del corrotto e mellifluo giardiniere Peter Quint in combutta con la governante in ”Improvvisamente un uomo nella notte”.

Arriviamo così nel 1972 e il bello e dannato di una volta ha ormai lasciato il campo al disfatto e maledetto uomo che incominciò a vedere irrimediabilmente la sua fine nelle tragiche vicende famigliari culminate con le vite spezzate del figlio omicida e della figlia suicida. La sua discesa agli inferi sembrava non arrestarsi più, ma lui affrontò l’insuccesso dopo la fama trattandolo da estraneo, per poi riscattarsi con un inatteso colpo d’ala: lo splendido volo compiuto con la regalità di un albatros gli permise una risalita artistica stupefacente. Con la sua aura di divo impareggiabile Marlon Brando trovò corrispondenza di amorosi sensi col personaggio di Don Vito Corleone, il pingue mafioso dalle incredibili sfaccettature umane de “Il padrino”, affresco di un’epoca dai diversi significati, per il quale vinse l’Oscar l’anno seguente. Dopo questo trionfo, in pieno delirio cinematografico Brando infila il cascante cappotto di cammello del maturo vedovo Paul, un individuo frustrato e schizofrenico che sodomizza Maria Schneider nello scandaloso ”Ultimo tango a Parigi”; poi sghignazzante e crudele in “Missouri”cavalca l’agghiacciante violenza di un cacciatore di taglie; e infine tenta di ravvivare col fuoco del napalm la spettrale e sinistra esistenza del colonnello Kurtz di ”Apocalipse Now”.

Un poker d’assi spettacolare quello che il mito Marlon sciorinò sul bianco del grande schermo prima di consegnarsi definitivamente al bisogno economico. Non aveva mai bleffato, non ne aveva bisogno: i suoi ultimi fuochi bruciarono del legno di una quercia anziché dei trucioli di una modesta segheria. Le sue ceneri nel 2004 furono sparse nell’aria e cullate dal vento atterrarono nell’atollo di Tetiaroa e nella Death Valley.
Nessuno come lui è stato uomo così alternativo nell’ambiente del cinema, così grande da proporsi attore e riproporsi personaggio, rimanendo nello spazio di una sua dimensione unica e varcando così i confini della realtà umana per adattarli alla finzione cinematografica, tanto che ancora oggi per dirla con parole e musica di Luciano Ligabue: Marlon Brando è sempre lui.

Vincenzo Filippo Bumbica