La storia di Gostanza da Libbiano incarcerata a Lari e sottoposta ad interrogatorio e tortura dal tribunale della Santa Inquisizione. Gostanza viene arrestata una mattina di novembre del 1594 all’età di circa 60 anni. E’ vedova ed abita a Bagno a Acqua, oggi Casciana Terme, vicino a San Miniato in Toscana.
Conosce l’arte di curare con le erbe, a lei ricorrono molte persone e aiuta le partorienti a far nascere i propri figli. Per farsi curare da lei vengono anche da molto lontano oppure mandano qualcuno a prenderla perchè la voce del suo operato si era sparsa di cittadina in cittadina. Un giorno muore un giovane che lei aveva tentato di curare e Gostanza viene accusata non solo di averlo ucciso, ma anche di eseguire pratiche poco chiare e di avere delle relazioni con il demonio.
La prima parte del suo processo si svolge sotto la responsabilità di un monsignore che godeva a quel tempo della fiducia sia da parte del potere statale che di quello religioso. Egli si reca a Lari dove interroga, nel palazzo dei Vicari, alcuni testimoni e il giorno successivo la stessa Gostanza da Libbiano che qui venne condotta e rinchiusa nelle carceri. Sin dal primo interrogatorio emergono dati rilevanti sulla storia della donna e sulla sua attività di levatrice e di guaritrice. Agli interrogatori seguono le torture per estorcere alla donna delle confessioni sulla sua presunta relazione con il demonio.
Gostanza da prima nega e poi, scioccata dai suoi accusatori e dai continui maltrattamenti, finisce per convincersi lei stessa di essere l’artefice del maligno e stanca delle toture ammette qualsiasi cosa gli venisse imputata, fosse solo per fermare la mano del suo carnefice. Fu persino raccolta la testimonianze della nipote di Gostanza; una bambina di soli 7 anni.
Il processo prosegue e accanto al monsignore compare un rappresentante del Sant’Uffizio e vicario dell’inquisitore di Firenze che, fino all’ultimo, resterà sempre fermamente convinto della colpevolezza di Gostanza. Poi giunge da Firenze l’inquisitore generale per il territorio del Granducato a presiedere le udienze del processo. Egli legge attentamente le carte del processo prima di interrogare per la prima volta Gostanza e dai resoconti degli interrogatori egli avverte subito un sentore di superstizione alimentato anche da gelosie e ripicche di paese.
Di fronte a lui poi Gostanza ritratterà tutte le deposizioni che sino a quel momento aveva rilasciato, solo per timore dei giudici e per evitare nuove torture alla corda. Per il nuovo inquisitore è giunto il momento di tirare le conclusioni. Per le persone di chiesa o per la gente comune ristretta e imbottita dai fanatismi restrittivi clericali, ciò che sopravvive degli antichi culti legati ai vecchi dèi pagani, equivale all’asservimento ai culti dei demoni e Gostanza aveva la sola colpa (se così la vogliamo chiamare) di condividere le credenze diffuse nell’ambiente rurale nel quale era cresciuta.
E’ per questo che fu additata come serva del demonio ma all’inquisitore generale, uomo dalla mente più aperta rispetto agli altri giudici che avevano avuto il compito di interrogare in precedenza Gostanza, riesce a scavare a fondo alla vicenda vedendola sotto un aspetto meno demoniaco.
Gostanza viene prosciolta dall’accusa di stregoneria mossa nei suoi confronti e questa fu la sentenza: «…di non tornare più alla sua casa, né che si accosti a tre miglia a quei contorni, sotto pena del carcere e della frusta; sotto le medesime pene le vien proibito di medicare uomini, donne o bestie in modo alcuno; le viene imposto di dire inoltre dove va ad abitare, affinché si possa osservare la sua vita per l’avvenire». C’è chi afferma che anche il suo fantasma inquieto si aggiri tra quelle stanze di tormento, del Vicariato di Lari, pur non avendovi trovato la morte.
Lacrime e sdegno per questi fatti che hanno coperto di infamia l’umanità e tutti gli uomini al servizio della chiesa che per conto e a nome di essa perseguitarono e uccisero un numero incredibilmente alto di povera gente indifesa. L’ignoranza di quel periodo non scusa quanto successe anche in considerazione del fatto che i carnefici non si trovavano dalla parte delle povere vittime analfabete e indifese e che i perseguitati erano in gran parte donne sole, anziani, ma anche uomini giovani e bambini innocenti. I mandanti che armavano la mano dei boia erano rivestiti con una tonaca e si riparavano all’obra della croce. Papa Giovanni Paolo II ha chiesto perdono da parte della chiesa, con un atto veramente moderno e coraggioso, per tutte le morti spaventose avvenute durante il sanguinoso e lungo periodo (circa 300 anni) dell’inquisizione. Atto coraggioso che comunque risuona sdridente e inutile.
Nel castello di Lari i detenuti venivano incarcerati e tenuti in condizioni estreme, torturati, processati e poi condotti a morte. La stessa sorte doveva forse essere stata la medesima anche per Giovanni Princi detto il Rosso della Paola, incarcerato per le sue idee politiche che oggi verrebbero definirte di sinistra. Qui fu imprigionato e qui trovò la morte, si disse suicida, impiccato alle inferriate della sua cella.
Ma le ragioni della sua morte non sono del tutto chiare, neppure dopo tutti questi anni trascorsi dalla sua orrenda morte. Sul corpo gli furono stati trovati degli inequivocabili segni di percosse e fù ipotizzato che forse era stato ucciso, picchiato a morte e poi solo successivamente, il corpo ormai privo di vita, fosse stato impiccato, appeso alla sua cella per simularne il suicidio. Queste sono solo ipotesi, non ci sono prove per avvalorarle, ma esistono comunque tali e tante circostanze da rendere la vicenda poco chiara.
Nella notte tra il 15 e il 16 dicembre il fantasma inquieto del Rosso della Paola ritorna a farsi sentire tra quelle mura intrise di sofferenza, manifesandosi con colpi che risuonano nei piani superiori che sono, sfortunatamente, non visitabili. Forse reclama ancora giustizia, quella giustizia che mai ebbe in vita.