John Wayne, l’uomo che non doveva chiedere mai

Quando lo conobbe il regista John Ford fu molto colpito dall’espressività decisa dei suoi lineamenti: quel robusto e nerboruto ragazzotto alto quasi due metri, soprannominato “Duke” come il suo grosso cane, proveniente da Winterset nell’Iowa dove era nato nel 1907, si era inserito nel mondo del cinema come stuntman. Consolidatasi col tempo la loro amicizia, lo suggerì al collega Raoul Walsh che avrebbe preferito Gary Cooper, per una parte di protagonista de ”Il grande sentiero”, ma l’allora ventitreenne Michael Marion Morrison sprecò via malamente la ghiotta opportunità con una recitazione approssimativa, banale e impacciata.  Dopo che un intuitivo dirigente della Fox ebbe la brillante idea di cambiargli nome e cognome con il più virile e aggressivo John Wayne, fece una lunga gavetta in filmetti di poco conto, circa sessanta.

Aveva trentadue anni quando ancora il suo mentore gli diede una nuova chance e questa volta l’attore non tradì le attese imponendosi all’attenzione del pubblico con un capolavoro assoluto del genere western ”Ombre rosse”, l’indimenticabile film del 1939 dove interpreta Ringo, un fuorilegge evaso di galera per consumare la sua vendetta. Strada facendo s’imbatte in una diligenza dove al suo interno convivono, uniti nel bisogno ma divisi nella mentalità: un trasandato dottore ubriacone, un azzimato giocatore d’azzardo, uno sceriffo probo e sentimentale, la moglie incinta di un ufficiale dell’esercito, una signora messa all’indice poiché di facili costumi, un avido banchiere corrotto e un pavido ometto rappresentante di liquori. In questa situazione vengono fuori i diversi valori e le inevitabili differenze sociali, ma alla fine la chiacchierata signora con la sua umanità e l’avanzo di galera coraggiosamente salito a cassetta dell’ondeggiante convoglio per respingere un’orda di vocianti guerrieri pellerossa, si riscatteranno.

Iniziò cosi una fattiva collaborazione tra i due che nell’arco di più di un trentennio, si concretò in una ventina di film, quasi tutti ambientati nel West. Ecco, tra il 1948 e il 1950, la magnifica trilogia sulla cavalleria”Il massacro di Fort Apache”, “I cavalieri del Nordovest” e “Rio Bravo” in cui Ford celebra con fervida esaltazione visiva lo spaccato ambientale di un’epoca e Wayne disegna da par suo i profili degli ufficiali attanagliati dal senso del dovere.  A seguire nel 1956 girarono “Sentieri selvaggi”, dove sullo sfondo rossastro della Monument Valley, Ethan Edwards con la sua andatura ciondolante, cappellaccio impolverato in testa, ingabbiato da appariscenti bretelle e inguainato in scoloriti pantaloni che terminano su speroni color argento, depone infine il winchester e solleva delicatamente accogliendo tra le sicure braccia, la dolce Natalie Wood liberata da una tribù indiana.  In ”Soldati a cavallo” del 1959, interpretato magnificamente da Wayne assieme ad un impeccabile William Holden, il regista pone l’accento sulla personalità di due uomini che vivono diversamente la stessa realtà sullo sfondo della terrificante guerra di secessione. Tre anni dopo il loro rapporto riprese con il film “L’uomo che uccise Liberty Valance”, in cui si racconta l’inarrestabile crepuscolo della romantica immagine scolorita dal tempo di un cowboy sorpassato dall’avvento della nuova frontiera, attraverso il dualismo tra Wayne e James Stewart nel malinconico bianco e nero di un paesaggio destinato a scomparire. Questa stupenda alchimia, produsse tra l’altro anche film di tipologia differente come “Un uomo tranquillo” e “I tre della croce del sud” in cui Wayne veste panni diversi molto più ironici e leggeri, si concluse, di fatto nel 1962 con un sintomatico episodio de ”La conquista del West”. Un film girato in quartetto, che oltre a Ford si avvalse della regia di Henry Hathaway, George Marshall e Richard Thorpe, come una cronistoria delle varie fasi in cui si è formato Il Grande Paese.

Questo Kolossal racconta della nuova frontiera americana dove sullo sfondo di una natura incontaminata fatta di fiumi ribollenti, limpidi laghi, aguzze montagne, tra cactus, serpenti e coyote, si muovono diversi personaggi : pionieri a bordo di carri cigolanti tra sterminate praterie e sentieri polverosi; baldi cowboy fischiettanti che guidano con perizia il loro bestiame; orgogliosi pellirosse che cavalcano a pelle cavalli selvaggi; soldati statunitensi che combattono con la divisa di un altro colore. Ai margini delle città si stagliano percorsi segnati dai lucidi binari dove sferragliano sbuffanti treni talvolta assaliti da audaci rapinatori. Nelle loro brulicanti strade impera la legge del più forte e risoluti pistoleri sono pronti a estrarre le loro colt per sparare il più veloce possibile, solo a volte contrastati da coraggiosi sceriffi a difesa degli onesti cittadini.  Nei fumosi saloon irreprensibili padri di famiglia timorati di Dio, ragazzotti di primo pelo e uomini violenti scazzottano ingollando sorsi di whisky mentre luccicanti ballerine lusingano tutti e trafficano con incalliti giocatori. E blindati nei loro accoglienti uffici, avidi banchieri col cuore a forma di salvadanaio si associano a ingannevoli affaristi dalle facili promesse ai danni dei poveri contadini dal volto di pietra.

Manifesto vivente del genere, John alternò talvolta questa strada a quella lastricata di sottile ironia e ancora diretto da Henry Hataway: oltre ”Timbuctu” e “Pugni, pupe e pepite”, con lui girò anche ”Il grinta”, in cui la burbera caratterizzazione di un disincantato brutto ceffo dal cuore però generoso, gli valse l’Oscar nel 1969. La sua imponente filmografia vanta anche altri prestigiosi sodalizi: col poliedrico regista Howard Hawks scaturiscono personaggi mitici quali: Lo sfortunato mandriano di “Il fiume rosso”; il coraggioso sceriffo di ”Un dollaro d’onore”; il ruvido irlandese di “Hatari”, il pistolero che si riscatta in “Eldorado”; l’intrepido tenente di” Rio Lobo”. A celebrare ancora il suo piccolo mondo antico, Wayne presentò sulle scene altre tipologie di personaggi: il fulgido David Crockett de “La battaglia di Alamo”; il temerario capitano dei texas ranger che sfida “I Comancheros” e il manesco primogenito dei “Quattro figli di Katie Elder”. E ancora, il maturo ranchero ”Chisum” che sfiorato dai primi refoli del periodico vento del nord, che i Comanches chiamavano solitario diventa nostalgico; lo scontroso Will alle prese con una banda di ragazzini in ”I cowboys”  e sopratutto il malinconico J.B.Brooks del “Pistolero”del 1976, un uomo anziano ormai morente in cerca di placare il suo ultimo desiderio.

Quest’ultimo film rappresenta la metafora della vita di un uomo che di lì a poco, nel giro di tre anni si spegnerà. Nessuno come lui seppe immortalare il mito dell’uomo vero che non mostra i propri sentimenti perché troppo forti al confronto di quelli che non li hanno, in un mondo dove la storia diventa leggenda. Un cavaliere senza macchia né paura, un cowboy svelto di mano e di pensiero inesorabile giustiziere dal comportamento rude, sbrigativo ed essenziale, spavaldo nei modi, vincente e coraggioso che lotta a garanzia dei valori della giustizia raccattando solitudine e misoginia.

Per interpretare mirabilmente questo personaggio d’azione, non fece altro che portare dentro lo schermo se stesso: il suo fiero cipiglio, tutta la sua prorompente fisicità e la passione per la natura sviluppata nel ranch di famiglia. La temerarietà era un moto della sua anima e non c’è stato ruolo avventuroso in cui non abbia riversato questa caratteristica che non s’identificò solo col genere western, ma sconfinò anche in quello bellico: ”Iwo Jima”; “Il giorno più lungo” e “Berretti verdi” sono alcuni film in cui indossa la divisa militare, dove impartisce secchi ordini e sparacchia ordini con la stessa cadenza sonora dei colpi di mitra. Un logico fil rouge unisce i due generi nel profondo rispetto di tutti quei valori che anche nel privato tra onori e oneri ”Il grande Jake”, parafrasando un’altra sua incisiva presenza cinematografica, si portò sempre appresso.

Vincenzo Filippo Bumbica