Johan Cruijff, l’uomo che venne dal futuro

“Se nel 1974 fosse stata l’Olanda a imporsi nella finale della coppa del mondo contro la Germania, forse nessuno avrebbe parlato ancora oggi di quella partita, di quanto fossimo stati bravi e della perfezione del calcio che giocavamo. La leggenda può trarre linfa da una sconfitta”. Firmato Johan Cruijff.

Chi altri se non quell’eretico olandese volante poteva concepire una religione calcistica diversa dalla sua rigida applicazione in funzione del risultato e scardinare la sua eterna liturgia fatta di schemi, tattiche e ruoli. Eppure malgrado che per quasi tutti i suoi miliardi di adepti nel calcio contino solo i numeri, per qualche tempo e in quel teatro ideale che fu il decennio tra la fine degli anni sessanta e quello dei settanta, questa splendida eresia si diffuse a macchia d’olio da un modesto impianto della capitale degli orange fino a raggiungere qualsiasi altro stadio, rubando la scena per l’inaudito copione proposto da un fine dicitore coadiuvato dal resto di una compagnia di eccellenti interpreti, che del gol e della sua essenza fecero arte.

Nato ad Amsterdam il venticinque di aprile del 1947, il giovane Johan cresciuto a pane e palla nonostante i piedi a papera e una caviglia malconcia svolazzava su duro selciato toccando spesso d’esterno piede: segno intangibile di classe sicura e col tempo divenne il braccio armato di quella banda di virtuosi solisti che facevano squadra, allenati dalla mente sopraffina di uno stratega che credeva alle utopie, un certo Rinus Michels diventato allenatore dopo aver soggiornato come giocatore da quelle parti.

E siccome il calcio è sempre lo specchio dei tempi, in quel periodo di sostanziali cambiamenti, la rivoluzione calcistica rappresentata da un figlio dei fiori e guidata da un professore matto, generò col tempo un mito inarrivabile: l’Ajax di Amsterdam. Una squadra fantastica, piena di creatività per cui le scelte individuali diventavano armonicamente alla fine un blocco unico e compatto.

I lancieri vestiti di bianco e di rosso, giocavano il cosiddetto calcio totale, dove non esistevano posizioni prestabilite, ma spazi da conquistare anzi da aggredire e in quest’anarchica interpretazione del gioco prendevano le mosse dall’invitto capitano, quel numero quattordici che sapeva in anticipo leggere il gioco. Un centroavanti moderno come non si era mai visto: veloce, elegante e imprevedibile che spaziava in piena libertà in ogni dove alla ricerca della posizione perfetta.

Vittorie e trofei come se piovesse: tre coppe dei campioni consecutive e tre palloni d’oro a impreziosire la già ricca bacheca di un Cruijff diventato divino, ancor più carismatico e insaziabile come lo può essere famelicamente un innamorato dell’estetica del gesto tecnico sposato all’economia di un gioco bello, produttivo e spettacolare in una ridda di movimenti finalizzati a produrre sintonia sul campo da gioco. E questa poesia del gioco Johan se la portò appresso forse con ancor maggior enfasi in nazionale: era come se sul prato verde si muovessero undici tulipani colorati di arancio a formare sempkre nuovi mazzi di fiori e questi arabeschi colorati cercassero il vaso adatto in cui entrare.

Quella meravigliosa combinazione di talenti assoluti che era l’Olanda dopo aver sfiorato il trionfo totale ai mondiali tedeschi, quattro anni dopo priva del suo profeta in disaccordo quasi con tutti e tutto: qualche compagno di squadra cui aggiunse il suo plateale disconoscimento della cricca dei generali argentini al potere, perse anche la finale mondiale del 1978. Il dio Moloc dei risultati aveva sbranato anche quella leggiadra e soave creatura che spargeva sul campo meraviglie calcistiche come fossero petali di fiori.

Johan, capì che era giunto il momento di cambiare strada per seguirne un’altra che però portava sempre allo stesso punto: il gioco per il gioco a prescindere dal risultato. Barcellona era la sua città ideale: aperta, libera e sempre all’avanguardia, diversa in tutto e per tutto dall’invisa Madrid, che pure lo reclamava, ancora odorante, secondo lui, di un mal sopito potere centrale. In quell’ambiente prima da calciatore e poi da allenatore Johan Cruyff ebbe la possibilità di coltivare come in una serra, il fiore delle mille e una notte della sua filosofia di vita e quindi sportiva sempre basata sulla coerenza al suo credo. Merce questa, dalla notte dei tempi, alquanto molto rara specie nel mondo pallonaro, che fu scambiata anche per presunzione cieca e assoluta. Era invece era la spocchia di chi alla fine poteva anche permettersela, sotto la sua guida,infatti,i catalani vinsero quattro titoli consecutivi nella Liga con la ciliegina sulla torta della vittoria nel 1992 della prima coppa  campioni del Barca a Wembley contro la Samp; incassando altresì come rovescio della medaglia anche qualche sonora batosta: il clamoroso zero a quattro col Milan di un astuto, pragmatico e italianissimo Fabio Capello, nella finale della coppa dei campioni 1994.


Se oggi però come prima e più di prima, i fenomeni in maglia azulgrana del Barcellona vincono,  convincono e incantano nel solco di una traccia di gioco seminata tempo fa da quel genio del calcio è una favola a lieto fine. Quella cominciata al tempo della fantasia sconfinata che andava spesso anche al potere, da un impunito e funambolico ragazzino olandese innamoratosi di un oggetto di cuoio che padroneggiava come nessuno tra i marciapiedi di una città simbolo assoluto della libertà totale che dunque non poteva che generare il calcio totale.

Il ventiquattro marzo di quest’anno Johan Cruijff, ha ricevuto una convocazione che, ironia della sorte, non ha potuto ignorare: quella di fare parte della squadra degli angeli celesti. Giocatore o allenatore non importa perché in quell’altra metà del cielo riservata ai calciatori, avvengono sì anche i miracoli, ma con tutta quella concorrenza, uno deve essere anche capace di esprimere il meglio di sé. Non è un caso che, commentando qualche partita odierna di calcio dove lo spettacolo del gioco esplode in tutta la sua bellezza, spesso si dica sopratutto alle latitudini catalane: “ Così si gioca solo in paradiso”.

Vincenzo Filippo Bumbica