Alessandro Gandolfi: una vita per la fotografia, i viaggi e un mondo da raccontare

E’ possibile raccontare una storia attraverso un articolo, una conversazione cercando con le parole di far capire all’interlocutore ciò che abbiamo visto e vissuto. Ma esiste un altro mondo fatto di uomini in grado di raccontare ciò che gli sta intorno attraverso una fotografia, uno scatto che possiede gli odori, i colori, i rumori di una realtà sconosciuta. Oggi abbiamo deciso di portarvi nel mondo del giornalismo attraverso la fotografia e per farlo abbiamo interpellato Alessandro Gandolfi, fotogiornalista e socio-fondatore dell’agenzia fotografia Parallelozero, i cui lavori sono apparsi sulle pagine dei più importanti magazine del mondo: Newsweek Japan, Le Monde, National Geographic Italy, L’Espresso, Internazionale, D – La Repubblica delle Donne, Marie Claire e molti altri. Ci ha raccontato la sua carriera, l’amore per la fotografia, per i viaggi e la voglia di raccontare il mondo che ci circonda.

Quando hai capito che il tuo lavoro sarebbe stato quello di raccontare il mondo tramite le tue foto?

Relativamente tardi, a 29 anni. Dopo la laurea in filosofia frequentai la scuola di giornalismo di Urbino, un biennio di studi molto utile che mi ha insegnato molto. Alla scuola c’era anche un breve corso di fotografia e lo seguii con interesse, ma poi una volta uscito iniziai a collaborare come cronista con il quotidiano La Repubblica e la fotografia rimase parcheggiata nel cassetto dei sogni. La collaborazione con La Repubblica, fra contratti e sostituzioni, durò circa tre anni fino a quando capii definitivamente che le mie vere passioni erano i viaggi e la fotografia. O meglio, cercare di fare giornalismo anche con la fotografia, viaggiando.

Torniamo indietro nel tempo a quando per la prima volta hai visto una tua foto pubblicata su una rivista prestigiosa. Di cosa si trattava e come è cambiata la tua vita?

La prima volta che ho visto una mia foto pubblicata su un magazine è stato sull’Espresso ed era, credo, il 1998. Con un compagno della scuola di giornalismo, Massimo Maugeri, oggi reporter dell’AGI, facemmo un viaggio nel Kurdistan turco raccogliendo immagini e interviste. Pubblicammo qualche storia su riviste – L’Espresso, Diario, Grazia, Avvenire – e scrivemmo anche una sorta di diario di viaggio, pubblicato nella collana Orme della Edt. Alla fine però Massimo non venne sedotto dal mondo della fotografia ma per me quel viaggio in Kurdistan rappresentò la prova generale di quello che poi avrei deciso di fare tre anni dopo lasciando il giornalismo scritto.

Ethiopia, Gorodolla Woreda. A woman shocked after a fight between two shepherds during the vaccination of their cows.

Che cosa significa essere un fotoreporter e cosa si nasconde dietro un reportage?

Per quanto mi riguarda, essere un fotogiornalista significa osservare il mondo nel quale vivi cercando di raccontarne alcuni aspetti, approfondire storie, mostrare lati meno conosciuti. Per fare questo utilizzi la fotografia, uno strumento ovviamente molto diverso dalla parola scritta: con quest’ultima puoi elencare numeri, date, statistiche, nomi e località; con l’immagine ottieni un risultato diverso, più legato all’emozione e alla narrativa che le fotografie offrono. Per questo fotografia e testo vanno spesso a braccetto, si completano a vicenda. Dietro un reportage? Ci sono inventiva, tenacia e fortuna.

I tuoi lavori sono apparsi in moltissime testate nazionali e internazionali: D di Repubblica, National Geographic Italia, Le Monde, Internazionale, Newsweek Japan per citarne alcune. Cosa ami di più del tuo lavoro?

Il fatto che sia un lavoro vario, creativo e indipendente, che mi permette di raccontare storie attraverso le immagini. Non avendo orari d’ufficio non significa che puoi bighellonare tutto il giorno: vanno cercate le idee, valutate quelle che meritano di essere raccontate, organizzati i viaggi, partire in missione, tornare e preparare i servizi, e poi venderli, e così di nuovo mese dopo mese. Ovviamente amo tutto questo, l’avrei fatto gratis.


Le tue foto sono state esibite in numerose mostre e festival. Qual è lo scatto che rappresenta a pieno Alessandro Gandolfi?

Ne ho in mente alcune. I senzatetto a Las Vegas fotografati nei tunnel sotto la città, dove vivono in condizioni disperate. O un’immagine scattata a casa di un imprenditore di Shanghai, un paio di anni fa: stavo preparando un servizio sui nuovi ricchi cinesi e questa fotografia – un bambino su un’Audi giocattolo in una lussuosissima casa – bene rappresentava quello che volevo raccontare. Ma ti dico il surfista a Gaza, un’immagine simbolo di un servizio che scattai nel 2010 nella Striscia: raccontare la storia di un gruppo di ragazzi che nonostante tutto cercavano di divertirsi e surfare le piccole onde mediterranee che ai loro occhi diventavano simbolo di libertà.

Il tuo reportage in Sierra Leone dopo l’epidemia di ebola ha vinto il PDN Photo Annual 2016 e la menzione d’onore al Moscow International Foto Awards. Ci puoi raccontare la realtà che hai visto e cosa ti ha colpito maggiormente di quei luoghi?

Sono stato in Sierra Leone a primavera 2015, inviato dalla ong italiana COOPI. Ho visto un paese che – seppure non ancora ufficialmente “ebola free” – stava piano piano uscendo da una catastrofe umanitaria. Un’epidemia che, oltre a causare migliaia di vittime, ne aveva devasto l’intera economia: aziende e università chiuse, disoccupazione, altissimo numero di orfani. Ma la cosa che più mi ha colpito è stato il cimitero nella periferia di Makeni dove sono stati seppelliti oltre mille persone decedute a causa di ebola. L’ho visitato un giorno silenzioso, verso il tramonto, con enormi nuvoloni neri che avanzavano spinti da un forte vento. C’erano mascherine e garze sparse ovunque, e centinaia di morti tutti attorno, sepolti da pochi giorni. Una situazione spettrale e angosciante.

Corea del Sud, Bulgaria, Italia, Russia, Cuba ecc… Realtà diverse così come le storie che hai raccontato. Quale luogo ti ha stupito di più?

Non ce n’è uno solo, tanti luoghi mi sono rimasti nella mente. I deserti libici con le loro pitture rupestri, le vallate con i torsatori di vicune a nord del Lago Titicaca in Perù, le chiese rupestri di Lalibela in Etiopia, il bianco infinito dei ghiacci dove camminano gli orsi polari a Churchill, in Canada. Però un luogo che mi ha stupito ultimamente è stato la Giara di Gesturi, un piccolo paradiso naturalistico e umano che sopravvive al trascorrere del tempo nel cuore della Sardegna. La Giara è un altipiano dove vivono centinaia di cavallini selvaggi. Per la sua conformazione, la Giara rappresenta un recinto naturale: i cavallini non possono fuggire e questo contribuisce alla conservazione di un mondo “perduto”, fra resti di nuraghe, allevatori di capre e raccoglitori di sughero. Sono stato due settimane per conto di National Geographic Italia ed è stata un’esperienza davvero unica.

Quale sarà il prossimo timbro sul passaporto?

Ho varie idee nel cassetto (anzi, nelle cartelle che mi tengo sul desktop del computer o in quelle fisiche piene di ritagli di giornale). Credo che raccontare il mondo “ravvicinato” nel quale viviamo sia da un lato meno esotico ma dall’altro non meno interessante e generoso di spunti. Il timbro dunque non sarà necessariamente sul passaporto. L’Italia, gli altri paesi europei, la Turchia, alcune nazioni del Nordafrica (per le quali è sufficiente la carta d’identità) offrono tanti spunti a poca distanza da casa. In attesa di un bel viaggio in Sudamerica o nel Sudest Asiatico, mi concentrerò sul cortile di casa nostra.

Claudia Ruiz