Intervista al regista Alessandro Tonda: il suo thriller The Shift al cinema

Dal 3 giugno al cinema The Shift di Alessandro Tonda è davvero una piacevole sorpresa per la suspense, il ritmo incredibilmente sostenuto (non frequente nel cinema italiano), per la qualità registica e la verosimiglianza della sceneggiatura. La trama racconta una situazione di pericolo, quale quella dei due protagonisti della pellicola: due paramedici dell’ambulanza che, a Bruxelles, sono sotto ostaggio di un ragazzino, aspirante terrorista, da loro salvato dopo un precedente tentativo fallito di attentato.

Si tratta di una co-produzione francese per una pellicola che abbiamo avuto modo di visionare in anteprima come giurati al Premio Caligari 2021.

In questa ricca intervista il giovane regista italiano Alessandro Tonda ci racconta la genesi del film e le tecniche utilizzate per la sua realizzazione.

Salve Alessandro, grazie per la tua disponibilità.

Per prima cosa vorrei chiederti quale è stata la genesi di The Shift? Da dove ha avuto origine la sceneggiatura?

L’idea mi è venuta tra il 2015 e il 2016, un po’ casualmente, a dire il vero. Stavo lavorando a Torino. Era il periodo degli attentati. Tutti quanti vivevamo un po’ in un clima di terrore ed incertezza, nella psicosi del momento. Da lì, ho immaginato un esperienza un po’ indiretta del fenomeno. Mio padre è un volontario della croce rossa, una persona comune, non un supereroe, e proprio partendo dal suo ruolo, mi sono chiesto “Pensa se mio padre si ritrovasse in una situazione del genere”: di avere un terrorista dentro un’ambulanza che viaggia per la città. Cosa accadrebbe? Come potrebbe sentirsi?

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Partendo da questa idea poi ho parlato con Davide Orsini, lo sceneggiatore, che comunque io conoscevo già perché ho sempre fatto l’aiuto regista. L’ho contattato per chiedergli se poteva darmi una mano. Così, a quattro mani, abbiamo scritto questo soggetto.

Successivamente abbiamo partecipato ad un concorso, il Pitch in the Day. Siamo arrivati in finale, con la possibilità di  fare il pitch del proprio film davanti a tutti i produttori italiani. Non abbiamo vinto il concorso, ma abbiamo raccolto l’interesse della Notorius, che ci ha chiamato per sviluppare il film e ha messo in piedi “tutto il circo” (ride).

Se non avessi avuto quella opportunità lì il film sarebbe rimasto in un cassetto, perché molto spesso molti giovani autori hanno progetti validi che poi non riescono a presentare alle case di produzione (bussano a molte porte senza che queste vengano aperte).

La vetrina del concorso ti permette di far leggere lo script ai produttori. Poi, davvero, Notorius ha compreso che tipo di film doveva essere fatto: hanno capito che dietro a questo film, per quanto opera prima, c’era un impianto importante.

The Shift: recensione del film di Alessandro Tonda - Cinematographe.it

In questo è stato molto bravo Davide Orsini, perché io non nasco sceneggiatore (mentre lui sì). Lui ci ha messo la sua tecnica da “scrittore di cinema”, io la “pancia” da regista. E’ stata una bella collaborazione.  Abbiamo cercato di essere obiettivi, non banali.

Quello che mi preme dire è che noi non abbiamo mai voluto fare un fil sul terrorismo, né di provare a trovare una risposta a questo problema, anche perché credo che nessuno di noi ce l’abbia una risposta a questo problema.

Volevamo accendere un riflettore su un tema forte. L’idea era quella di fare un film di genere, in un certo senso; di prendere la suspense direttamente dalla paura generalizzata. E’ da lì la scelta di fare un film più verosimile possibile.

L’intenzione era quasi documentaristica, ciò cercare di essere più reali possibili, anche per la freschezza del linguaggio, senza cercare di strafare. Senza cercare di avere per forza l’esplosione o l’inseguimento di un certo tipo. Non cercare di essere troppo virtuosi, perché in quel modo snaturi un po’ la tua stessa natura di cinema. Insomma, l’idea era quella di fare un proprio film, con una propria identità, piuttosto che scimmiottare il cinema americano, che spesso fa largo uso di effetti speciali indirizzati all’intrattenimento.

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Del resto noi italiani abbiamo un nostro proprio stile, una nostra poetica, che ci rappresenta nel mondo. Quindi Notorius è stata molto intelligente perché ha intuito che questo film poteva guardare sia all’Europa, che al panorama internazionale. In questo importante anche l’apporto del co-produttore Tarantula: siamo riusciti a dare al film l’ambientazione giusta, nel posto giusto e con lo script adatto.

A proposito della regia, volevo parlare con te della scena iniziale del film, molto virtuosa a mio parere al livello registico, mi ha ricordato Greengass, lì dove nel riprendere l’attentato compiuto all’interno della scuola, mette in scena quasi “l’ubiquità” del pericolo, attraverso una serie di inquadrature che permettono una forte e verosimile immedesimazione.  

Come hai concepito questa scena?

Diciamo che di certo ci sono alcune pellicole che indirettamente mi hanno ispirato. Partiamo dagli “eccessi”: da Speed a Made in France, da Elephant al Profeta; però, in generale, la vera reference del film è stata la cronaca.

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La mia necessità era quella di cercare il più possibile di portare lo spettatore dentro quella situazione, dentro quella psicosi. Da qui la scelta del piano sequenza iniziale che rappresenta la soggettiva dello spettatore.

Ricordo che all’inizio feci una discussione costruttiva con i produttori. Loro sottolineavano il fatto che comunque occorreva adottare il punto di vista di un personaggio che portasse lo spettatore all’interno della scena, dentro la storia.

Avevano ragione: è la grammatica del cinema; ma il mio intento era opposto. Io volevo che lo spettatore, identificandosi con l’inquadratura della camera, fosse lui protagonista attivo di quella scena, come se egli fosse uno degli studenti coinvolti, in prima persona.

Per la storia che andavamo a raccontare ero convinto che fosse necessario far cominciare il film con una scena di tale impatto: una scena forte, per dare un pugno nello stomaco, con cui dire questa è la situazione in cui ti trovi, questa è l’angoscia, l’adrenalina che tu proverai per tutto il film.

Tradurlo dal punto di vista tecnico non è stato semplice: abbiamo realizzato un piano sequenza unico dall’inizio fino all’esplosione. Non volevo staccare mai e così abbiamo fatto: con tutta la messa in scena delle figurazioni dall’autobus al cortile, all’interno della scuola, i colpi in arrivo, i colpi in partenza, è tutto reale, senza staccare mai.

Alessandro Tonda • Regista di The Shift - Cineuropa

E’ stato un lavoro molto grosso, anche dal punto di vista della preparazione. Dalla posizione della telecamera, al lavoro che i ragazzi hanno fatto con gli stuntman, per simulare l’arrivo dei colpi. Abbiamo addirittura “rubato” un giorno di preparazione per fare una sorta di prova generale, con tutti vestiti, con cariche finte, solo per provarla.

Un piano sequenza è molto complesso, anche perché se sbagli devi ricominciare tutto da capo. Dal punto di vista registico quella sequenza è stata complicata per la messa in scena; ma la parte più complessa del film è stato in realtà tutto il resto, girato all’interno dell’ambulanza.

Questo perché volevo girare con una camera car. L’ambulanza in cui è ambientato il film non è stata, infatti, ricostruita in un teatro di posa. Non abbiamo girato da fermi, ma all’interno dell’ambulanza che davvero girava per la città. Gli attori veramente sobbalzavano, come un vero camera car. Nei film di solito questo succede per due o quattro scene, per noi è stato per gran parte della pellicola.

E’ stato complesso al livello tecnico, soprattutto per la macchina da presa, per l’operatore. Per necessità del racconto, infatti, abbiamo dovuto fare a ameno di tecnologie come la stady cam, che permettono una maggiore stabilizzazione. A questo proposito devo dire che è stato bravissimo il direttore della fotografia ad inventarsi un metodo particolare agganciando la macchina da presa a dei binari “verticali” appesi al soffitto dell’ambulanza, così da dare maggiore stabilità alle inquadrature.

“The Shift”, in corso a Liegi le riprese dell'opera prima di Alessandro Tonda | RB Casting

Questo mi ha permesso di essere libero di seguire gli attori e mi ha permesso di non stoppare mai, di mantenere la freschezza dell’inquadratura e così la verosimiglianza delle immagini. Il film è sporco ed è giusto che sia così.

Uno dei temi del film è quello del terrorismo, affrontato con intelligenza, evitando stereotipi, in modo da permettere allo spettatore di immedesimarsi sia nelle vittime dell’attentato, che nei due paramedici, sia nel giovane attentatore, co-protagonista della pellicola, sedotto dal macabro e terrificante ruolo offertogli, purtroppo, dall’indottrinamento religioso e da una promessa mortifera di grandezza. 

Cosa hai chiesto agli attori sul set? 

Hai centrato il tema: sì, abbiamo parlato del tema del terrorismo e della radicalizzazione, ma ci siamo focalizzati sulla psicologia di un ragazzino di diciassette anni, arrabbiato col mondo, con i genitori, con la religione e con la politica. In questo caso c’è un ragazzino che ha sfogato la sua rabbia-frustrazione lasciandosi plagiare e seguendo la strada sbagliata. Fin da subito l’obiettivo era quello di creare tra i personaggi un legame, in particolare un legame madre-figlio tra Isabelle (Clotilde Hesme) e il ragazzino protagonista (Adam Amara) un rapporto generazionale, volto al dialogo, difficile, ma necessario per far comprendere che la strada imboccata era quella sbagliata.

Agli attori non ho chiesto nulla agli attori. Ho fatto in modo di farli incontrare il più tardi possibile con il ragazzino protagonista, quasi per provocare un effetto shock, realistico, nel confrontarsi con lui e con il suo ruolo. L’effetto reale non è possibile al cento percento, ma più che un lavoro fatto prima di girare il film, è stato un lavoro di dialogo-confronto aperto, maturato sul set: un incontro tra quello che io volevo sulla scena e la loro natura di esseri umani.

Tu regista scegli un attore non solo perché è bravo, ha la faccia giusta, ma lo scegli anche per la sua persona, per quello che lui è. Interpreta un personaggio, ma lo fa a suo modo. Vedendo altri registi girare ho imparato che, a volte, è meglio non darle le indicazioni agli attori, perché più gli indirizzi e forse, a volte, più li confondi.

Ho cercato di fare vivere loro le scene – conoscevamo tutti la sceneggiatura. Quello che ho fatto, soprattutto, è stato contenerli. Ho fatto il direttore d’orchestra. Ho lasciato che i primi strumentisti suonassero e ho dato loro una direzione. Io ho sempre detestato quei registi che sono troppo invadenti, l’attore deve essere libero, non bisogna castrare la sua sensibilità né le sue emozioni.

THE SHIFT -

Cosa puoi dirci delle tue esperienze pregresse, ad esempio come aiuto-regia per Stefano Sollima in Suburra e nella serie Gomorra?

Quello che posso dire è che sono state esperienze fondamentali per tutto, per la mia carriera. Avere la fortuna di lavorare con registi di quel calibro ti permette di imparare. Io ho rubato con gli occhi. Vengo da una formazione meno accademica e più pratica. Mi sono diplomato in regia e ho iniziato subito la gavetta. Mi sono trovato a farle le cose: vedere il lavoro con gli attori, il rapporto con il direttore della fotografia. E’ proprio vero, a mio modo di vedere, che la preparazione teorica serve, ma con quella puoi arrivare fino ad un certo punto; perché poi il cinema lo devi apprendere facendolo, non te lo può insegnare nessuno.

Recensione su The Shift (2020) di alan smithee | FilmTV.it

Ci sono regole fondamentali che puoi studiare sui libri; c’è la storia del cinema, la conoscenza di altri autori che senza dubbio non può che arricchirti, ma per tua cultura personale, perché puoi attingere a quello che poi diventerà la tua poetica. E’ un po’ come la letteratura: ognuno hai suoi gusti, le sue basi, le sue origini. Io vengo dalla pratica, dalla “trincea”(ride) della regia. Esperienze come Gomorra e Suburra, sono state molto forti e stimolanti, per le persone che incontri sul campo, per i luoghi in cui stai a lungo, come se fossero per un po’ la tua casa.

A questo proposito un aneddoto: il giorno in cui la mia compagna mi ha detto che era in cinta di nostra figlia, il giorno stesso Notorius mi ha detto: Ok facciamo il film! Molti amici mi hanno chiesto “Come farai ad essere concentrato”?

Io per fortuna ero tranquillo. Cioè non avevo paura di stare sul set. La fortuna di aver fatto la gavetta mi ha permesso di essere sereno. Ovvio, la paura c’è sempre. E’ il tuo film. Puoi aver avuto l’esperienza dei film degli altri. Dai il cento per cento, ma sono pur sempre film degli altri. Torni a casa, vai a letto e dici non è il mio film; ma quando sei tu in gioco, beh è tutta altra cosa, a maggior ragione per un esordio.

I prossimi progetti? 

Sto lavorando a progetti che comunque guardano oltre il confine. Ho capito che questa è un po’ la mia dimensione di cinema: la voglia di raccontare storie universali, non solo locali.

 

Francesco Bellia