Intervista a Veronica Raimo: l’insoddisfazione, l’indeterminatezza e l’ironia di “Niente di vero”

Tra i 12 finalisti del Premio Strega 2022 per la prima volta vi è anche Veronica Raimo con il libro “Niente di vero” edito da Einaudi editore. La Raimo, che ha esordito come scrittrice nel 2007 con il romanzo Il dolore secondo Matteo, con la partecipazione al Premio Strega apre una nuova strada nella sua carriera, presentando un libro che racconta della vita – attraverso quella che sembra essere la sua – e di cosa significhi di fatto vivere tra gioie, dolori e finzioni. Punto saliente del romanzo sono i legami con la famiglia vista come pura convenzione. Importante è il rapporto con i genitori e quello con il fratello Christian, anche lui scrittore.

“Niente di vero” è il quinto dei romanzi che riportano la firma di Veronica Raimo, ma nel suo percorso come autrice vale la pena ricordare, la partecipazione alla sceneggiatura di Bella addormentata di Marco Bellocchio, candidata ai Nastri d’argento 2013.

In attesa di scoprire il risultato ultimo del tanto ambito premio letterario, Social Up ha intervistato l’autrice cercando di scoprire di più dell’universo narrativo di “Niente di vero”.

Innanzitutto, complimenti per la candidatura al Premio Strega! Si aspettava che questo romanzo potesse raggiungere un simile risultato?

No, non me lo aspettavo. Non avevo mai partecipato al premio Strega e quindi ero curiosa di provare a farlo, ma non avevo aspettative a parte la curiosità. Ovviamente sono felice di essere entrata in dozzina.

“Niente di vero” è un romanzo che potremmo definire autobiografico, anche se in fin dei conti sembra che non ci sia niente di Veronica. Che definizione gli darebbe allora?

Credo che i libri siano sempre un po’ di più e al tempo stesso un po’ di meno delle possibili definizioni. A me interessa avere uno sguardo laterale rispetto alle cose, e anche uno sguardo che possa smentire o contraddire quello che sto facendo. Quindi, in questo caso, la mia idea era di provare a dimostrare che è impossibile scrivere una propria autobiografia di per sé vera, perché chi la scrive è in una posizione intrinsecamente “compromessa”.

Il lettore appare contemporaneamente coinvolto nella trama del libro, ma anche nel processo di scrittura di questo, sebbene sia ormai terminato. Da un lato, si immerge il lettore dentro la storia, dall’altro lo si riporta alla realtà. Era un obiettivo che si era prefissata? È stato uno strumento attraverso cui distaccare anche lei stessa dalla scrittura biografica?

Più che le trame nei libri o la costruzione di grandi parabole, a me interessa vedere quello che fa lo scrittore o la scrittrice. Ritorno alla questione dello sguardo laterale, mi piace poter stare al margine delle cose, avere una prospettiva da quel margine, persino quando una storia sembra apparentemente la mia.

Nel libro, le bugie, le fantasie sono sempre più interessanti della realtà per la protagonista. È un modo per spiegare l’intrinseca natura umana di non essere mai felice e soddisfatta per quello che ha (fino a quando non si perde ovviamente)?

L’insoddisfazione è di sicuro un principio creativo per quanto mi riguarda. Io non so bene cosa sia la realtà, perché è comunque fatta di interpretazione e invenzione. Che cosa sono i fatti? La letteratura non si occupa di fatti. I fatti, in questo senso, per me non esistono.

L’azione fa paura, la noia è uno stato esistenziale. La vita adulta, però, è fatta di scelte che la protagonista si impegna a rimandare: più pigrizia o paura di crescere realmente? 

Mi piace pensare che crescere non voglia dire per forza dover scegliere. Di solito le due cose sembrano combaciare, ma forse è una convenzione che si può anche mettere in discussione. Perché non si può crescere e continuare a vivere nell’indeterminatezza?

“Siamo arrivati al paradosso”: la famiglia non è più il nido, il porto sicuro che tanti altri autori hanno sempre descritto che fosse. La protagonista si sente davvero più se stessa e protetta quando è all’infuori da determinate dinamiche familiari o vuole solo fuggire da queste?

La famiglia è un’altra convenzione che oggi in un certo senso stiamo provando a ridiscutere, ma mai con l’idea di annullarla completamente. Anche dopo l’allontanamento da quel nucleo, c’è sempre questa idea di dovervi far ritorno: la famiglia appunto come senso di casa e protezione. Io non la vedo così. Preferisco ragionare in termini di solidarietà, di alleanza, di rete, di rapporti che prescindano dai legami di sangue.

L’ironia di “Niente di vero” è al contempo nostalgia di un passato lontano e presa di coscienza di un presente immutabile. Qual era il suo proposito a riguardo?

L’ironia è un modo di guardare alle cose e abbassare il grado di retorica di determinati eventi, traumi o conflitti. Ho cercato di usarla in questa maniera, quindi anche per riuscire a raccontare cose che altrimenti avrebbero rischiato di sembrare troppo enfatiche o drammatiche.

Giulia Grasso