Intervista a Giulio Dispenza: “Vi spiego la professionalità del calcio dilettantistico”

Il mondo del calcio a livello dilettantistico non può certamente godere dei riflettori, dell’interesse pubblico e dell’immenso giro di denaro che si trovano normalmente nei campionati professionistici. Tuttavia, è spesso sui campi in terra battuta ai limiti della praticabilità, con poche centinaia di spettatori sugli spalti e un’atmosfera ben diversa da quella che siamo abituati ad assistere sui grandi schermi che i professionisti del futuro iniziano a compiere i primi passi. Quella di Giulio Dispenza, attuale centrocampista della Santostefanese (squadra piemontese che milita in Promozione), è indubbiamente una storia che dimostra che la determinazione, la volontà e l’entusiasmo – oltre che il talento – possano rappresentare un perfetto viatico per costruirsi una carriera di spessore, nel calcio così come nella vita.

Classe 1990 e cresciuto per dieci anni nella Juventus, Dispenza ha subito la frattura di tibia e perone che lo ha costretto a un tribolato periodo di stop e a ripartire con tanta pazienza dalle esperienze che lo hanno portato dalle giovanili fino alle prime squadre: Gabetto, Ivrea, Canavese (con cui ha fatto il suo esordio in Lega Pro), Settimo Torinese, Villalvernia e l’avventura ad Alessandria tanto per citarne alcune. Dopo l’importante approdo a Rivoli di mister Zappella (ora secondo di Grosso al Bari) si arriva agli ultimi quattro anni concentrati nel territorio astigiano: prima San Domenico Savio Rocchetta, con il quale ha vinto il campionato e fatto una semifinale di Coppa Italia persa al fotofinish e poi proprio alla Santostefanese. La storia calcistica di questo ragazzo giustifica come la passione per uno sport non abbia categoria, ma venga alimentata dalla voglia di raggiungere un obiettivo, come la soddisfazione di regalare una vittoria o di realizzare un gol per i propri tifosi.

In che modo ti sei avvicinato al mondo del calcio?

Col pallone ci sono praticamente cresciuto. Una volta sceso dalla culla, avevo sempre una palla con cui giocare e con cui rompere cose in giro per la casa. Poi sono arrivate le prime partitelle vere ai giardinetti a Torino o per strada con gli amici ad Agrigento, città in cui sono cresciuto. La svolta è giunta all’età di 5 anni, quando sono entrato nelle giovanili della Juventus e da lì ho iniziato tutta la mia avventura calcistica come tutti quelli che amano e fanno di questo sport la propria passione.

Quando hai capito che potevi fare del calcio la tua vita e in un certo senso la tua professione?  

Sinceramente all’inizio pensavo solo a divertirmi, a sognare di diventare calciatore e ad emulare i miei idoli come tutti i bambini. Crescendo in un ambiente come quello della Juve, il mio modello era Del Piero, da cui ho tratto ispirazione imparando disciplina, educazione e rispetto per compagni. Ad essere sincero, ho vissuto anno dopo anno sognando che ciò potesse diventare la mia vita o la mia professione, ma senza che questo costituisse un chiodo fisso. Semplicemente mi godevo i momenti e la crescita pensando dove sarei potuto arrivare o cosa sarebbe potuto arrivarmi in termini di opportunità. Anche dopo la frattura di tibia e perone nel momento forse più importante, non mi sono perso d’animo; ho lavorato un anno per rimettermi in piedi, fatto un passo indietro e da lì è iniziato il mio percorso verso il calcio dei grandi che mi ha portato a togliermi belle soddisfazioni.

Quali sono le esperienze che calcisticamente ti hanno segnato di più?

Ho tanti bei ricordi e momenti che mi porto dietro. Andando per ordine, il primo sicuramente è l’esordio in C col Canavese, con l’assist vincente dopo 10 minuti dal mio ingresso in campo e l’abbraccio di tutti i miei compagni più esperti. Poi il primo anno in Serie D a Settimo in cui ho giocato tutte le partite e abbiamo raggiunto un ottavo posto storico per una squadra che militava per la prima volta in quella categoria. A quella parentesi si lega l’amichevole contro la Juventus e quella contro la Nazionale di Lippi nel ritiro di Bardonecchia, pronta a partire per il Mondiale in Sud Africa. Incontrare Gattuso, Zambrotta, Cannavaro, Camoranesi, Buffon, è stata senza dubbio un’esperienza speciale. Aggiungerei il campionato vinto col San Domenico Savio in un’annata esaltante e la parentesi di Alessandria in Lega Pro, calcisticamente meravigliosa in una piazza storica ed importante.

Che ambiente hai trovato e cosa hai vissuto nella tua squadra attuale, la Santostefanese? 

La considero casa mia ormai da 3 anni e in questo periodo abbiamo fatto progressi incredibili. Dopo essere passati da terzultimi ai play off il primo anno, si è creato uno splendido ambiente e adesso siamo in alto, vogliamo restarci e continuare a sognare. Siamo un vero e proprio gruppo di amici oltre che di giocatori; i rapporti umani sono fondamentali perché quando si consolidano ti permettono di raggiungere grandi traguardi. Qui la società mi fa sentire a casa e in tutte queste esperienze, oltre ai tanti gol, vittorie, gioie, sconfitte e delusioni, la costante è sempre stata quella di crederci sempre tutti insieme, a prescindere dalla categoria.


Ogni volta che segni un gol, non perdi occasione di esultare alla maniera di Mark Bresciano. Com’è nata questa scelta?

Vedendolo giocare anni fa, tra l’altro nel ruolo dove gioco, restai incantato dalla sua esultanza dopo un gol all’Empoli. Esultanza non banale, estrosa, controcorrente, di personalità: una statua. Ne rimasi impressionato e da quel momento decisi che dovevo farla anche io. Mi piace tenere tutta la gioia ed esplodere dentro. L’aspetto più bello è avere tutti i compagni addosso dopo il gol: è come se diventasse il momento di tutta la squadra perché festeggiamo insieme.

Quanto conta l’aspetto professionale in un contesto come il calcio dilettantistico? 

Io penso semplicemente che se si sceglie di fare una cosa bisogna farla bene, con serietà. Bisogna dare tutto per rendere al massimo delle proprie capacità e possibilità. Io cerco di mettere tutto me stesso in ogni momento, allenamento, o partita; tutta quella professionalità che mi porto dietro dalle esperienze trascorse anche tra i professionisti. È soggettivo l’approccio all’impegno, ma per quanto mi riguarda non c’è cosa migliore che dare il massimo per raggiungere un obiettivo, un traguardo, una vittoria o soddisfazione. Tenendo ovviamente conto dell’imprevisto e della sfortuna, ciò che conta è metterci passione, entusiasmo, gioia, professionalità nel fare le cose. Questo è un aspetto che cerco di trasmettere ai compagni più giovani e non solo in campo, ma anche per la vita di tutti i giorni. L’importante è avere sempre nuovi obiettivi e mai restare passivi o fermi, statici e immobili. 

Cosa ti senti di consigliare a chi vorrebbe intraprendere la strada del calciatore, partendo proprio dai dilettanti?

Di dare tutto, fare le cose con serietà senza poter dire di aver rimorsi o rimpianti. Bisogna crederci. A volte può dipendere da te, altre volte meno, ma se non ci provi non lo saprai mai. Se succede, sarà bellissimo altrimenti non sarà la fine del mondo. Ci si può sentire giocatore anche nei dilettanti, a patto che si faccia tutto con il massimo impegno. Se non si sentono queste cose è inutile; possiamo tranquillamente andare il lunedì con gli amici a calcetto, di inverno stare sul divano davanti la televisione e passare la domenica con la ragazza all’Ikea.

Quali sono i tuoi obiettivi per il futuro?

Calcisticamente voglio giocare ancora per tanto tempo, con l’obiettivo di restare sempre il più in alto possibile. Voglio raggiungere ancora tanti traguardi, vincere un altro campionato (spero anche di più) o comunque competere a grandi livelli. Un domani mi piacerebbe continuare a restare nell’ambiente calcistico, magari come allenatore, dirigente o manager, ma questo lo valuterò crescendo professionalmente e umanamente.

Giuseppe Forte