In ricordo di Jerry Lewis, l’indimenticabile “Picchiatello” di Hollywood

Una ruga può anche trasformarsi in un affascinante segno di vita e quelle che solcavano il volto del novantunenne Jerry Lewis, uno degli attori simbolo del cinema del 20° secolo, erano tante e quasi tutte suscettibili di questa fascinosa metamorfosi. Soprattutto negli ultimi tempi, quando si presentava con tutta la sua bella storia stampata in faccia, d’un tratto questi segni del passato si ingentilivano ed era come se raccontassero la meravigliosa avventura umana di un personaggio che con la sua arte sopraffina, fu capace in quasi 70 anni di attività di rappresentare una stella di prima grandezza nel variegato universo dello spettacolo made in USA in generale e della celluloide in particolare rimanendo al contempo immortale nel ricordo di tutti gli appassionati per il suo stile inventato di sana pianta.

Originale ed eccentrico, surreale e graffiante, in possesso di una inconfondibile mimica facciale unita a una esuberanza corporea che sfociava in gag irresistibili, Joseph Levitch, questo il suo vero nome, figlio di immigrati russi ebrei nato a Newark nel 1926, smanioso bambino al seguito dei genitori, che come attori di vaudeville girovagano tra i teatri di provincia, ebbe ben presto il suo battesimo artistico nel 1931 come componente di un coro. Divenne poi un giovanotto irrequieto e incapace di stabilità scolastica e fu così che provò a guadagnarsi da vivere con lavori occasionali quali commesso, magazziniere e fattorino. Colse però subito la sua occasione quando impiegato come maschera in un cinema teatro di Brooklyn riempì gli intervalli dello spettacolo improvvisando applauditi sketch comici. Firmò il suo primo contratto nel 1944 e due anni dopo al posto giusto e nel momento giusto avvenne l’incontro giusto con un cantante di origine italiana: tale Dino Crocetti in arte Dean Martin. I due daranno vita a una coppia perfetta nel suo incastro, esilarante nelle sue differenze, significativa nel rappresentare la moderna realtà sociale del tempo. Ambedue ambiziosi, intelligenti e dotati da madre natura delle qualità necessarie per imporre nel mondo del cinema un nuovo linguaggio accoppiato a una nuova e fresca espressività, Dean e Jerry sostituirono nell’immaginario collettivo le precedenti coppie famose ormai sul viale del tramonto. Questo fortunato sodalizio basato sul fascino belloccio di Martin e sulla sgangherata comicità di Lewis produsse la bellezza di ben sedici titoli a cominciare da:”Attenti ai marinai” del 1952, continuando con “ Artisti e modelle” e” Il nipote picchiatello” per finire quattro anni dopo con “ Hollywood o morte”, che di fatto per ragioni di mera professionalità chiuse la loro collaborazione nel 1956, proprio nel decennale della loro unione artistica.

MY FRIEND IRMA GOES WEST, Jerry Lewis, 1950


Dean Martin
intraprese una strada fatta di ruoli più impegnativi (I giovani leoni; Qualcuno verrà; Un dollaro d’onore) mentre Jerry Lewis continuò il suo percorso comico girando in rapida successione (Il delinquente delicato e Il marmittone). Così però rischiava seriamente lo stereotipo a cui si sottrasse grazie alla collaborazione col regista Frank Tashlin col quale aveva lavorato in: ”Il balio asciutto”, che gli propose una parte scritta su misura per lui nel film ”Il Cenerentolo” del 1960. E fu così che Jerry, in piena evoluzione artistica proprio in quell’anno con il film ”Un ragazzo tuttofare”, iniziò una carriera nella carriera diventando un total- filmaker che, di fatto coinvolgendolo in prima persona come regista attore e talvolta sceneggiatore, lo portò a continuare brillantemente con altri eccellenti risultati quello splendido periodo. Lewis firmò tutta una serie di piacevoli ed esilaranti capolavori tra i quali si ricordano in ordine prettamente cronologico: ”L’idolo delle donne” e “Il mattatore di Hollywood” entrambi del 1961; seguiti a breve dal suo preferito “Le folli notti del dottor Jerryll” e dal surreale ”Jerry 8 e trequarti”. Nel 1965 poi diresse ”I sette magnifici Jerry” scritto assieme a Bill Richmond, dove ancora una volta dilata sé stesso per interpretare contemporaneamente altrettanti strampalati personaggi alle prese con una piccola ereditiera. Chiuse quel cerchio magico degli anni sessanta affiancando il vanesio Tony Curtis, in “Boeing-Boeing”; condividendo i problemi della sua coscienziosa fidanzata Janet Leigh in ”Tre sul divano” e vivendo una vita che non era la sua in “Jerryssimo”. 

Benché addidato da certe associazioni pro disabili come esempio negativo per certi suoi movimenti corporei intesi come scimmiottamenti sulle posture dei malati o forse proprio per questo, nel 1966 Jerry Lewis aveva fondato Telethon, una campagna di raccolti fondi a favore della lotta alla distrofia muscolare e nonostante ottimista per natura e innamorato della vita e del proprio lavoro, si era certo abbattuto nel 1970 per l’insuccesso, solo in patria, del film ”Scusi dov’è il fronte?” dove nelle vesti di attore e regista Lewis aveva confezionato ancora una volta in un doppio ruolo la sua personale riproposizione in chiave satirica dell’attentato al fuhrer Adolf Hitler.

Scomparve dai radar cinematografici per dieci anni e solo al principio degli anni ottanta cedette alle lusinghe del precedente successo per curare la regia e apparire protagonista di ”Bentornato Picchiatello”, ma era solo un fuoco di paglia che sottintendeva ai suoi ultimi bagliori rappresentati dalla intensa partecipazione come coprotagonista assieme al celebre Robert De Niro nel film di Martin Scorsese “Re per una notte”.

American comedy actor Jerry Lewis, with his mouth open at the piano. (Photo by Evening Standard/Getty Images)


Qualcuno scrisse che un uomo intelligente può benissimo fare lo scemo, mentre diventa impossibile il contrario, ebbene questa epigrafe sarebbe opportuna scritta sulla lapide di Jerry Lewis la cui scomparsa in questo periodo, oltre ai dovuti e rituali tributi, non ha avuto forse l’eco che meritava.

Non tutti hanno riso alle sue battute, ma la migliore recensione del lavoro del comico newyorchese è stata scritta dal collega Dice Clay che recita ”Non è ridere il punto. Il punto è la commedia”. Per apprezzarlo occorre prendere il bello e il brutto del suo repertorio e soprattutto apprezzarne il brutto, le battute al limite dell’offensivo e i suoi modi sgraziati e qualche volta irritanti, esattamente come la più sincera delle risate che ci ha regalato”.

 

Vincenzo Filippo Bumbica