Former Cleveland Browns Hall of Fame running back Jim Brown presides over a meeting of top African-American athletes on June 4, 1967, to show support for boxer Muhammad Ali's refusal to fight in Vietnam. Those present are: (front row) Bill Russell, Muhammad Ali, Jim Brown, Lew Alcindor; (back row) Carl Stokes, Walter Beach, Bobby Mitchell, Sid Williams, Curtis McClinton, Willie Davis, Jim Shorter, and John Wooten. (Photo by Tony Tomsic/Getty Images)

I giocatori NBA e la lotta al razzismo

Il 26 agosto 2020 rimarrà probabilmente nella storia dello sport americano e della lotta al razzismo. I giocatori dell’NBA infatti, guidati dai Milwaukee Bucks, non sono scesi in campo in segno di protesta contro l’aggressione a Jacob Blake da parte della polizia. 57 anni dopo quel “I have a dream” di Martin Luther King (28 agosto 1963), quando 250.000 afroamericani marciarono su Washington invocando il riconoscimento dei propri diritti civili, la giustizia sociale negli USA continua ad essere un miraggio.

L’NBA non scende in campo per protesta

La protesta arriva in un momento delicato per l’NBA, che era appena ripartita dopo il lock-down, e soprattutto dopo i disordini causati dall’omicidio, sempre da parte della polizia, di George Floyd. I primi a decidere di non giocare sono stati appunto i Bucks, squadra che milita nel Wisconsin dove è avvenuta la sparatoria. La partita in programma era gara 5 del primo turno Playoff contro gli Orlando Magic, e i Bucks vincendo si sarebbero assicurati il passaggio del turno. Ma ci sono cose più importanti di una partita, e dopo di loro anche Thunder, Rockets, Portland, Lakers, ecc. hanno “boicottato” i rispettivi match. Le motivazioni sono riassumibili nelle parole di uno dei veterani della Lega, Chris Paul:

 “Tutto quello che sta succedendo ha una motivazione ben precisa: siamo stanchi di vedere sempre le stesse cose accadere. Le persone si aspettano che per noi vada sempre tutto bene perché portiamo alle nostre famiglie parecchi soldi. Ma siamo umani, siamo persone, proviamo dei sentimenti. Abbiamo capito quanto sia forte e potente la nostra voce e alla fine abbiamo deciso che se ci allontaniamo dal basket giocato il nostro messaggio non avrà necessariamente la stessa potenza”.

Chris Paul motiva la decisione di non scendere in campo

Anche Bill Russell, leggenda dei Boston Celtics, ha espresso il suo sostegno, ricordando quando nel 1961 anche lui e i suoi compagni decisero di non giocare una partita amichevole. Allora la causa della protesta era stato il comportamento discriminatorio dei gestori di un hotel del Kentucky, nei confronti di un compagno di squadra, reo di avere la pelle del colore “sbagliato”.

L’impatto dello sport nella lotta al razzismo

Non ha tardato ad arrivare anche il commento del Presidente Trump, il quale ha accusato l’NBA di essere diventata un’organizzazione politica, dannosa per il paese. In riferimento a questo, spesso in passato sono volate critiche ai giocatori che si prendevano l’onere di far sentire la propria voce, e ciò non è cambiato. “Shut up and dribble!” è quello che si è sentito dire più volte LeBron James, “stai zitto e palleggia”, come se chi pratica sport non possa aver voce in capitolo su qualsiasi altro tema. La realtà è che queste persone, con le loro azioni e grazie al grande seguito che hanno, non sono solo dei semplici sportivi, ma dei megafoni per tutte quelle persone che non hanno la stessa forza. Dei megafoni che portano non solo speranza, ma anche risultati concreti.

In questi giorni, ad esempio, i giocatori hanno ottenuto degli accordi in cambio del ritorno in campo, tra cui: la promessa da parte dei proprietari delle franchigie di donare 500 milioni di dollari per promuovere iniziative in favore della comunità nera e delle persone in difficoltà; la trasmissione di pubblicità che incentivino il voto durante il resto della stagione; la messa a disposizione delle strutture di allenamento come sedi per le urne; la creazione di una fondazione per sostenere la crescita del movimento “Black Lives Matter”.

Più che atleti

Tanti sportivi nel corso della storia, tra cui Muhammed Alì, Kareem Abdul-Jabbar, Jackie Robinson, Colin Kaepernick, hanno deciso di non seguire il consiglio “shut up and dribble”, e con le loro azioni o parole sono riusciti a smuovere le acque e compiere dei piccoli passi verso quella tanto agognata giustizia sociale. E allora l’augurio è che queste persone non smettano di parlare, ma continuino a lottare e ad ispirare le persone. Perché la lotta al razzismo non è una questione politica, la lotta al razzismo è giustizia, umanità e civiltà.

Colin Kaepernick si inginocchia durante l’inno, in segno di protesta contro le violenze nei confronti dei neri [The new daily]

“A life is not important except in the impact it has on other lives.”

“Una vita non è importante se non per l’impatto che ha su altre vite.” [Jackie Robinson]