Caporetto: un fallimento all’italiana?

Era il 24 ottobre 1917. 100 anni fa l’Italia subiva sul fronte austriaco la sconfitta peggiore nella storia del Regno. A cosa fu dovuta la disfatta di Caporetto? Inesperienza militare o astute manovre austriache? C’è chi potrebbe dire che gli italiani hanno, in effetti, sempre collezionato fallimenti. Ma lungi dai preconcetti e dagli stereotipi, cerchiamo di capire cosa ha causato questa disfatta.

Capo di stato maggiore era Luigi Cadorna, passato alla storia – a torto o a ragione – come “il macellaio delle trincee”. La tecnica della “spallata” prevedeva una rigida offensiva militare frontale ad opera dei soldati che attaccavano a oltranza. Tecnica discussa, dannosa e sanguinosa per il regio esercito che, in occasione di Caporetto, mostrò le sue debolezze: i soldati non erano abbastanza forti e quindi non restava loro che perire. Per 11 battaglie lungo il fiume Isonzo l’esercito italiano resistette alle offensive austriache sotto il comando di Cadorna, ma la situazione dopo l’undicesima battaglia era diventata critica e l’impero austro-ungarico premeva lungo il fronte, contrastando le offensive italiane. Nonostante il contrasto, anche l’esercito austriaco iniziava ad indebolirsi: i comandanti austriaci pensarono di chiedere aiuto all’alleata Germania.

La crisi strategica non era solo italiana ma quindi anche austriaca: l’offensiva all’Italia avrebbe significato una dispersione inutile di forze, quando ad est l’Austria avrebbe preferito impiegare soldati per la conquista e il crollo della Romania per spianarsi la strada verso la Russia. Nonostante questi propositi, i generali austriaci decisero di pianificare l’attacco all’Italia. Fra le proposte, venne approvato l’attacco concentrato sull’Isonzo. A complicare le cose da una e dall’altra parte del fronte ci fu il territorio aspro delle Alpi che di certo rendeva poco agevoli le manovre militari.

Il resto, sostanzialmente, si racconta da solo. La grande alleanza fra tedeschi e austriaci prese in nome di Operazione Waffentreu (ovvero fedeltà alle armi), mossa contro l’infido nemico italiano che, ricordiamolo, si era “macchiato di tradimento”, cambiando schieramento – dalla Triplice Alleanza alla Triplice Intesa – con i Patti di Londra del 1915. L’operazione avrebbe puntato sull’alto Isonzo per poi sfondare completamente le linee difensive italiane. Sfondate le linee dell’Isonzo, gli italiani ritirarono oltre le rive del Tagliamento, su consiglio del generale Cadorna.

Nel frattempo, il re Vittorio Emanuele III nominò presidente del Consiglio Vittorio Emanuele Orlando, che manterrà l’incarico fino alla fine della Guerra. Pur cercando aiuti fra gli alleati, i diplomatici inviarono solo un esiguo numero di divisioni in soccorso agli italiani. Le ultime resistenze sul Tagliamento non rassicuravano l’Alleanza che decise di muovere contro gli italiani i contingenti del generale von Below per paura di riprendere la guerra di posizione in trincea; la resistenza italiana venne fermata a Longarone, in provincia di Belluno, dove vennero catturati 10.000 di uomini.

Motivi militari e poi motivi politici: tattiche scadenti e alleanze vacillanti. L’entrata in guerra dell’Italia fu fortemente contestata, per l’estrema disorganizzazione e la debolezza dell’esercito. Questo sarà anche tipico anche della seconda guerra mondiale (vedi ad esempio le sempre citate “scarpe di cartone” degli italiani in Russia). Ma i libri di scuola ignorano un altro aspetto, forse ovvio, una caratteristica tutta italiana: la corruzione dei piani alti dell’esercito. Ebbene: quello che è scontato viene spesso trascurato, come le frodi sulle forniture, che hanno manifestato i loro punti deboli proprio con il risultato devastante di Caporetto.

Alla luce di tutto ciò, sarebbe proprio il caso di dire che la sconfitta era solo questione di tempo. Caporetto fu anche una “grande diserzione di massa”, parafrasando le parole dello storico Lehner, che avrebbe potuto trasformarsi in una grande rivoluzione. E significative in questo senso sono le lettere spedite dai soldati ai loro cari a casa: in esse si parla di imprecazioni ai generali e stragi di soldati – veri e propri “macelli”, scrive un testimone. A ciò si aggiunge, in un clima già in principio disperato, il disfattismo dei cattolici, incoraggiati da Benedetto XV, e dei socialisti, affascinati dalla nascente rivoluzione bolscevica. Un clima teso perciò pervadeva le trincee italiane: eravamo una bomba ad orologeria pronta da esplodere…

Ma perché non scoppiò questa rivoluzione? La storiografia moderna attribuisce la responsabilità proprio ai dirigenti del PSI che hanno mostrato sin dall’inizio della guerra un atteggiamento scettico per l’intervento in guerra: una sconfitta come Caporetto avrebbe così tanto abbattuto i soldati da impedire loro di poter organizzare una rivoluzione come quella bolscevica e quindi avere successo almeno su questo “fronte interno”.

Sarà solo la spinta patriottica a vincere lo scoramento delle truppe italiane perorata dal nuovo Capo di Stato Maggiore Armando Diaz, una volta deposto il controverso Cadorna, a seguito di ambigui processi che avrebbero attribuito responsabilità anche a Badoglio, futuro Presidente del Consiglio dopo Mussolini. La ripresa anche morale dei soldati quindi fu cruciale per l’esito della guerra: da un lato si poteva percorrere la strada della rivoluzione, dall’altra la strada del patriottismo, un patriottismo particolarmente sentito quando il generale Diaz avrebbe promesso terre mai consegnate.

Quale poteva essere la conseguenza di questa nuova delusione, se non il fascismo e una seconda guerra?