Si è laureata nel 2017 e a Milano ha poi lavorato per diverse realtà importanti nel settore moda. Ad oggi è già apparsa su ID Italia e nessuno può fermarla. Stiamo parlando di Cecilia, fondatrice e designer di Boredom Ravers. Il brand si ispira alla realtà dei rave degli anni Novanta, è inclusivo e anche sostenibile.
Raccontaci il tuo percorso nella moda e soprattutto perchè hai scelto questa strada.
Ci sono state due figure nella mia vita che penso, inconsciamente, mi abbiano traghettato verso l’idea di fare vestiti. La prima, mia nonna materna. Una sarta meravigliosa. Penso di doverle tante, troppe cose. Da piccolina mi esortava a schizzare complotti con l’indelebile nero sulle tovagliette da colazione. L’altra è Simona, un incontro magico durante il mio percorso di studi. Ha saputo orientare e mettere ordine alla mia creatività etica.
Poi ci sono io, che odio parlare di me stessa. Studio tantissimo. Storicizzare e fare letteratura di ogni avvenimento semiotico che mi passa sotto gli occhi o dentro il cuore è un feticcio. Sono attratta da tutte quelle fasi storiche in cui l’esigenza di manifestare urgeva al punto che gli abiti diventavano, per essenza o per eccesso, veicolo di comunicazione abrasiva. Oggi, non penso tanto alla costruzione di un abito sul corpo, quanto alla composizione e alla combinazione di significati che si possono costruire su questo. I vestiti sono una figata perchè coincidono con l’azione, possono sfidare concezioni e stereotipi di cultura.
Il tuo progetto è ispirato ai rave e agli anni 90 e una delle prime cose che si notano sono le stampe e il trattamento dei tessuti. Come sei arrivata alla scelta di queste stampe particolari?
Sì, il Raving è la mia eterna materia di studio. E la mia eterna passione. Sono profondamente attratta e appassionata di subcultura. Credo infatti che la Rave culture abbia davvero elargito e contaminato il tessuto sociale. Ed è proprio quello che voglio fare attraverso i vestiti. Vorrei divulgare messaggi etici, sociali ed inclusivi tramite immagini e giustapposizioni di istanze. Parlare tramite immagini è un’esigenza tanto quanto raccontare la realtà.
Come brand sostenibile e inclusivo quali sono le maggiori difficoltà che trovi?
Penso non esistano difficoltà in termini di sostenibilità ed inclusività. La fortuna è che la nostra generazione è vergine in questi termini. è più facile concepire un brand etico, inclusivo e sostenibile quando non si proviene da abitudini contrarie e dialmetralmente opposte a questa. Le difficoltà stanno solamente nel sostenere i costi che la produzione circolare comporta e nel processo di credibilità, essendo un brand emergente.
Il tuo moodboard ideale.
Uh, sono un pò un feticcio i moodboards per me, sai? Ne faccio in continuazione. Sicuramente non possono mancare un frame da Creemaster di Mathew Barney, uno scatto di Martin Parr e un complotto scritto a indelebile.
Rispetto agli inizi c’è qualcosa che cambieresti?
Ovviamente cambierei tutto. Ma se ho una certezza, fino a quì, è tutto quello in cui credo davvero.