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Armin Hary, l’uomo dal guizzo d’oro

E tu corri e corri per raggiungere il sole, ma sta tramontando. E sta correndo attorno per spuntarti di nuovo alle spalle”.

Si fa tardi molto presto per un velocista. I 100 metri piani erano un labirinto dove ognuno cercava il suo filo di lana in una successione di secondi a due cifre accompagnati da decimi. Ora sono un progetto matematico srotolato su uno scalpitio di passi giganteschi. Lo sparo prima del via diventava la descrizione di un attimo. Oggi si è trasformato in un’implacabile gogna elettronica.

C’era una volta un ladro di attimi che tentava sempre il furto ai danni dello starter. Rubare tempo al tempo non era un’emozione da poco e neanche un’impresa facile. Velocista istintivo, Armin Hary sapeva ben coltivare la sua straordinaria capacità di cogliere all’unisono il centesimo giusto della partenza se non anticiparlo d’un soffio: a questa innata reattività aggiungeva una bruciante accelerazione e un’ottima resistenza allo sforzo. Con la destrezza e la velocità di un Arsenio Lupin della pista scappava via portandosi appresso fino al traguardo il bottino della vittoria, meglio se rimpinguato da qualche buon risultato.

Sommando le qualità alle ambizioni, questo sprinter tedesco cercava, sempre comunque e dovunque il colpo grosso: la prestazione super con un responso record, perché c’è sempre una prima volta e lui lo sapeva e lo sentiva che sarebbe stato il primo uomo a correre la distanza in dieci secondi netti: il record mondiale della specialità che avrebbe infranto le colonne d’Ercole di quel tempo e di quello spazio.

Era scritto nel bluastro cielo di Zurigo che sormonta lo specchio d’acqua di un lago a goccia e avvenne il 21 giugno del 1960 e si conctretizzò dentro lo stadio Letzigrund. Qui si svolgeva il Weltklasse: una riunione preolimpica a bell’apposta organizzata per coinvolgere nel giusto clima del confronto buona parte degli atleti partecipanti assieme a una valida compagnia cantante.

La gara sui cento piani fu ripetuta due volte: la prima viziata da falsa partenza, appurata a gara conclusa, ad opera di un oltremodo reattivo Hary che a causa dei suoi riflessi incredibili ingannò lo starter anticipando di qualche centesimo di secondo la partenza, per giungere all’arrivo con il fantascientifico tempo di 9”9.

Nella ripetizione, con buona pace di tutti, l’atleta germanico, per nulla demotivato anzi consapevole, partì regolarmente e corse per la prima volta la distanza col riscontro cronometrico manuale di 10”0: la cifra tonda inseguita per anni che divenne così record mondiale.

Era scritto nel limpido cielo di Roma striato solo da batuffoli di nuvole bianche e avvenne il primo di settembre dello stesso anno in occasione della XVII Olimpiade moderna. Dopo che in semifinale uno dei favoriti, il fluido canadese Harry Jerome, anch’esso nel frattempo coprimatista della distanza, si era stirato in finale approdarono tre neri e tre bianchi in questo ordine di corsia partendo dalla corda: il longilineo e leggero David Sime; il corpulento e potente Francis Joseph Budd e il forte ma lunatico Otis Ray Norton: tutti e tre statunitensi; poi il frizzante cubano Enrique Figuerola; il compatto finisseur inglese Peter Radford e appunto il guizzante teutonico Armin Hary. Quest’ultimo dopo uno stillicidio di false partenze, tra cui la sua, concentrato più che mai azzecca l’attimo fuggente e va in fuga verso la vittoria con una stupenda accelerazione, respingendo la tardiva progressione dell’arrembante Sime che per un niente non mette in discussione il suo trionfo sancito dal fotofinish: stesso tempo per entrambi 10”,2.


Fu per grazia ricevuta: la dabbenaggine dell’ultimo frazionista stelle a strisce, il deludente Norton, che si fece squalificare per cambio irregolare ma a caval donato non si guarda in bocca e così Hary lo svelto, secondo frazionista della 4×100 tedesca, si mise al collo anche la medaglia d’oro della staffetta veloce.

In virtù delle fantastiche imprese che lo consacrarono, primo sprinter tedesco a fregiarsi del titolo olimpico in due specialità, l’invitto Armin dimostrò al mondo intero che alla base dei suoi successi non c’era solo la sua straordinaria qualità percettiva, bensì tanto talento e tanto lavoro.

Il talento cominciò ad affiorare quando, appena sedicenne, corse così per gioco i 100 m in 11”,9 e si confermò quattro anni dopo quando corse, la stessa distanza con l’eloquente tempo di 10”, 4 che lo fece inserire nella lista delle graduatorie mondiali. Appena un decimo in meno ed eccolo campione europeo a Stoccolma nel 1958.

In quanto al lavoro l’esigente disciplina acquisita come operario in una fabbrica, fu propedeutica ai sacrifici necessari per i rapidi miglioramenti di cui si giovò abbondantemente quel biondino dalle belle speranze.

La sua storia di atleta, illustrata dagli splendidi fotogrammi in bianconero di un Olimpiade affascinante nello splendido scenario di una Roma vestita di giorni dorati, illuminata dell’argento lunare e carezzata da bronzei tramonti, finisce per un grave imfortunio a metà degli anni sessanta dopo che non era riuscito più a ripetere gli eclatanti successi di quell’estate magica.

La sua storia di uomo, nato a Queirschied nel 1937, che fece grande la Germania dello sprint in corsia, continua ancora con alterne vicende dopo che nel 1980 è stata disturbata dalla detenzione  per una truffa ai danni della diocesi di Monaco di Baviera. Sia come sia però nulla e nessuno riuscirà mai a strumentalizzare questo rovescio della vita con quello della medaglia: appioppare una patacca è un conto, lucidare con lo sguardo un simbolo di gloria, decisamente un altro.

Vincenzo Filippo Bumbica