“Chissà come dicono minchia in Malesia”: storia di un siciliano in Asia

Partire per un lungo viaggio, possibilmente verso una meta lontana ed esotica. Imbattersi in una cultura totalmente diversa dalla nostra, ma trovare inaspettatamente delle similitudine con il proprio luogo d’origine. Stringere legami profondi con perfetti sconosciuti che ben presto diventeranno i tuoi compagni di viaggio e la tua sola famiglia in quel luogo così distante da casa. Chi non ha mai sognato di vivere tutto questo? Beh, Gualtiero Sanfilippo, giovane giornalista e autore palermitano, è riuscito davvero a coronare questo sogno!

Recatosi in Malesia per svolgere un lavoro da volontario nella prevenzione Hiv/Aids presso la University Putra Malaysia, Gualtiero rimane poco più di due mesi a  Kuala Lumpur, in un quartiere di periferia di nome Jalan Seri Serdang. La Malesia è l’ultima meta disponibile dato il suo inglese molto limitato, come lui stesso ammetterà con divertente autoironia per tutta la narrazione. Durante il viaggio, la sua passione per la scrittura e la sua voglia di rendere indelebili le emozioni di quell’esperienza lo portano a tenere un diario di bordo. Ciò che però non aveva preventivato, è che ben presto il suo diario si sarebbe trasformato in un vero e proprio romanzo di formazione dal sapore autobiografico. Proprio da qui nasce infatti “Chissà come dicono minchia in Malesia”, la prima opera letteraria del giornalista siciliano edita per la collana Kalispera.

L’ironia e la vivacità di linguaggio si notano già dall’originale titolo, ideato da Francesco Armato e Nicola Leo, gli editori della casa editrice Il Palindromo. Il “Chissà” del titolo racchiude bene lo stupore, il mistero e la voglia di scoperta che non è solo del protagonista nei confronti della Malesia e di quello che questa terra rappresenta, ma anche la curiosità e la meraviglia degli abitanti malesi di fronte all’italianità del viaggiatore.  Il “minchia” invece è l’intercalare tipico siciliano, che rappresenta in qualche modo il bagaglio culturale di ogni siculo che si rispetti e viene utilizzato per abbattere qualsiasi tipo di distanza umana e avvicinare gli spiriti. In Malesia ovviamente, la parola “minchia” non esiste, ma al suo posto viene utilizzato “lah” ad ogni frase e ad ogni domanda.

Come nella migliore tradizione del romanzo di formazione , il giovane intraprende un lungo cammino fisico e spirituale fatto di ostacoli ed emozioni sempre crescenti, che lo porteranno inevitabilmente a segnarlo e farlo crescere. “Chissà come dicono minchia in Malesia”, di pagina in pagina, dona al lettore due mesi di esperienze fatte di fumi di frittura, tanti chilometri, cibi nuovi da provare; e ancora pregiudizi svaniti, voglia di migliorare le vite degli altri e un po anche la propria.

E poi la calorosa accoglienza dei malesi così simile alla tipica ospitalità siciliana, la volontà di andare aldilà dei classici stereotipi sui turisti, e i mercati locali che tanto ricordano quelli palermitani. Chi lo avrebbe mai detto in fondo che il mercato di Ballarò a Palermo si differenziasse dal mercato di Jalan Seri Petaling semplicemente dalla presenza di lanterne rosse? Ed ecco che, come per magia, i dodicimila chilometri di distanza si annullano anche per il lettore che si ritroverà immerso dalle contraddizioni di un paese che se da una parte è popolata da giungle selvagge e templi silenziosi, dall’altra i rumori e le luci delle metropoli moderne forniscono una dimensione del tutto diversa.

Da non sottovalutare è il tema dell’amicizia multiculturale che riesce ad abbattere qualsiasi barriera linguistica, sociale e culturale. Inoltre, ciò che forse più colpisce è la voglia di diversi giovani che negli ultimi mesi, prendendo ispirazione dalle avventure dell’autore, hanno deciso di intraprendere la stessa esperienza in Malesia, portando persino il libro in viaggio con sé.

Alice Spoto