Il racconto di una violenza attraverso gli abiti delle vittime

“Cosa indossavi? Vestita così poi, di cosa ti lamenti? Te la sei proprio cercata!”. Domande, pregiudizi, sensi di colpa che offuscano e affollano la mente di migliaia di ragazze vittime di violenza sessuale che, oltre a dover sopportare e custodire questo dolore, hanno dovuto fare amaramente i conti con ripugnanti e diseducative insinuazioni di questo tipo.

Per porre fine a questi preconcetti, la studentessa di fotografia Katherine Cambareri,  con un progetto fotografico dal titolo “Well, what were you wearing?”, ha deciso di sfidare la facilità e la naturalezza con cui si è soliti incolpare le vittime, mostrando gli abiti che alcune ragazze indossavano al momento della violenza. Tra le prime domande rivolte spesso loro, infatti, c’è proprio quella sull’abbigliamento, a conferma di quei pregiudizi che vedono, in un modo di vestire inadeguato e inappropriato, una istigazione nel farsi aggredire.

Le immagini sono molto sobrie, una fonte di luce rischiara i vestiti avvolti da uno sfondo nero. Tra i capi di vestiario fotografati ci sono una maglietta con lo scollo a V, dei pantaloni da tuta grigi, un cardigan, delle Converse bianche, una canottiera a fiori, delle T-shirt. Come è evidente, si tratta di abiti che tutti noi indossiamo abitualmente a dimostrazione di quanto è inutile e dannoso incolpare le donne e il loro abbigliamento: l’unico filo che lega questi vestiti è la tragica storia che li accomuna. Gli indumenti, leggermente sgualciti, sembrano essersi chiusi in un silenzio eloquente, urlando le ingiustizie che circa il 35% delle donne nel mondo sono costrette a subire, e di cui spesso sono ritenute responsabili.

Scioccata da questo contesto agghiacciante, la studentessa ha pensato di zittire tutti coloro che credono nella colpevolezza delle donne violentate. La società dà per scontato che le vittime indossino abiti succinti al momento dell’aggressione ma, grazie alle immagini di Katherine, questa supposizione non è solo errata, ma anche pericolosa perché si rischia di far passare la vittima in questione come unico e vero responsabile dell’accaduto. La verità è che non esistono vestiti che provocano aggressioni. Ogni donna, in qualsiasi momento, aldilà di quello che indossa e del suo aspetto fisico, può diventare preda di uno stupratore. Le vittime non chiedono mai di essere aggredite. Lo stupro accade perché una persona ha deciso di aggredirne un’altra, non ci sono giustificazioni o altre spiegazioni possibili: la violenza sessuale è un reato e come tale va punito. Non ci sono corpi provocanti, ma persone, essere umani con una propria dignità e che, in quanto tali, hanno la libertà di indossare quello che vogliono, dai jeans attillati alle maglie extra large.

Il progetto fotografico lancia un messaggio di denuncia: “Spero che gli spettatori saranno in grado di mettersi nei panni delle vittime e di immaginarsi negli indumenti che ho fotografato. E’ importante che le persone acquisiscano nuovi punti di vista per fermare stigmatizzazioni e stereotipi”, questo quanto affermato dalla giovane studentessa.

Ecco qui di seguito gli scatti del progetto fotografico “Well, what were you wearing?”, immagini che di certo sottolineano il coraggio di una donna dalla parte delle donne.