XVI Festival del cinema di frontiera – Intervista a Nello Correale

Nella splendida cornice offerta da Marzamemi, dal 25 al 31 luglio, si è tenuto il XVI Festival del cinema di frontiera. Numerosi i film in programma (80 tra lungometraggi e corti) e molteplici anche le location delle proiezioni (ben 4 schermi che trasmettevano film contemporaneamente): una fra tutte la piazza centrale, allestita con un grande telo circondato da sedie, (chi rimane in piedi ed è di Marzamemi può portare le proprie), come se l’intero borgo marinaro diventasse una grande arena, dall’ingresso rigorosamente gratuito (è uno dei pochi festival internazionali a non richiedere il pagamento di un biglietto); per passare poi all’antica tonnara e al cortile Villadorata, in cui oltre ad essere spettatori si parla di cinema con i suoi protagonisti, all’ombra degli alberi di fico.

Con l’attrice catanese Miriam Leone in veste di madrina del festival e la giornalista Ornella Sgroi come presentatrice, l’evento è una vera e propria festa del cinema, con annessa l’ ”isola del gusto”, uno spazio allestito con diversi stand in cui assaggiare i prodotti tipici del luogo. Presidente della giuria,  Ivan Giroud, direttore artistico del Festival internazionale di Cuba. Tra i giurati anche Antonio Urrata dell’ Ente fondazione Spettacolo, l’attrice Lucia Sardo, la scrittrice Silvana Grasso ed Elit Iscan, giovane protagonista del film“Mustang”.

Il tema dell’evento è la frontiera, intesa nelle sue più ampie sfaccettature. I film in concorso, infatti, tendono a travalicare i confini geografici, non soltanto per il paese di produzione (molti non sono italiani), ma soprattutto per i temi affrontati: con storie che si pongono l’obiettivo di oltrepassare e abbattere le barriere, ricercando la libertà nella diversità. E’ così che la frontiera diventa il punto di incontro tra culture diverse e “mondi diversi”, un luogo di congiunzione in cui l’altro diventa sempre meno estraneo, ed è proprio il cinema a fare da ponte in questo avvicinamento conoscitivo tra poli che molto spesso sembrano opposti o lontani.

In particolare in questa edizione il tema viene affrontato dal punto di vista femminile. Molti dei film in concorso narrano la storia di donne che lottano per riscattare se stesse: da “Sonita”, una rapper afgana che sfida con i suoi versi e la sua arte le tradizioni conservatrici del suo paese, a Nojoom, di “La sposa bambina”, che a soli 10 anni chiede il divorzio, dopo essere stata data in sposa ad un uomo molto più grande di lei; per continuare con Farah, che in “Appena apri gli occhi” (pellicola vincitrice del concorso), persegue con la sua musica la denuncia dell’infelicità sociale della sua terra. Per concludere con “Fiore” di  Paolo Giovannesi, unico film italiano in gara (che ha ricevuto la menzione speciale), in cui si racconta la storia d’amore di due adolescenti in un carcere minorile, ponendosi nell’ottica femminile di Dafne ( interpretata dall’esordiente ed espressiva Dafne Scoccia), i cui desideri e sogni non vengono piegati o distrutti dalle sbarre di una prigione, ma sopravvivono alle barriere con la purezza e la naturalezza di un fiore che sboccia.

Il festival oltre a dare ampia libertà allo spettatore nello scegliere quali film vedere, senza imporgli una rigida e “imbrigliante” scaletta, ha il merito di selezionare e importare pellicole dall’estero, che altrimenti arriverebbero difficilmente sui nostri schermi. In tal senso la cernita del materiale è opera del direttore artistico Nello Correale che in questa edizione ha anche prospettato un interessante confronto con il cinema cubano. Social up lo ha intervistato per voi.

Il festival del cinema di frontiera è giunto alla sua XVI edizione. Ha dunque una sua storia importante e una sua identità. Come avviene la ricerca dei film da inserire in programma? Siamo giunti al punto in cui sono i film a cercare il festival?

L’ultima parte è la risposta e non per modestia, ma per la realtà delle cose, visto che noi non ci possiamo permettere di fare scouting. Quindi come facciamo ad avere film importanti, soprattutto in anteprima, come quello che ha inaugurato la rassegna, “Sonita”, un documentario che arriva da un festival prestigioso come il “Sundance”? Nel nostro fare cinema sullo schermo in questi 16 anni abbiamo dato la possibilità a molta parte del cinema indipendente di avere un pubblico, almeno individuarlo e questo ci viene riconosciuto col fatto che dopo tanti anni molti autori hanno pensato bene che questa potesse essere non dico una piazza, ma una piattaforma da cui partire. Quindi è molto semplice adesso. Non abbiamo più la necessità di andare a spiegare chi siamo. Abbiamo più che altro la possibilità di scegliere con giudizio e criterio, mantenendo quelli che sono i caratteri del festival, perché il rischio più grosso è che diventi una “kermesse”, invece di conservare il suo aspetto originario. Noi, infatti, non abbiamo carpet di nessun colore: né rosso, né blu, né verde. Non abbiamo transenne, né backstage. L’ingresso è totalmente gratuito. Questi tre elementi rendono abbastanza unico il nostro festival nel panorama delle manifestazioni culturali in Italia.

Però l’unicità è data anche dal fatto che questo luogo ce lo permette. Perché è un borgo e siamo cresciuti insieme alle altre attività, non soltanto commerciali, di tutta la realtà del territorio, che ci porta fino a Pachino e oltre. E quindi questo rapporto quasi simbiotico con Marzamemi, ci rende propulsivi in tutte le nostre scelte, perché con poco riusciamo a fare tanto.

Il tema del festival è la frontiera. Come viene inteso questo termine nell’ottica della manifestazione? Quale è il rapporto tra Sicilia e Cuba nella presente edizione?

Frontiera io non l’ho mai pensata solo come un fatto geografico. Credo che  nel 2001, quando abbiamo fatto la prima edizione, il riferimento alla frontiera geografica fosse più marcato, perché necessariamente in quegli anni cominciavano i grandi passaggi, i grandi movimenti migratori, quindi essendo noi una situazione epigonale, decentrata, era quasi naturale. Ma la definizione è stata sempre declinata nella mia mente in altri modi. Quello più importante secondo me è quello che ha a che fare con la frontiera culturale. Sapere che si raccontano persone, storie, territori che nonostante le diversità hanno comunque a che fare con tre cose: ridere, piangere e pensare. Credo che un festival del cinema di frontiera sia un luogo in cui si presentano storie provenienti da vari paesi, che sono storie anche nostre.

Se questa è la premessa. Alla domanda cosa abbia a che fare Cuba con la Sicilia. E’ perché, alla fine ho pensato, da una suggestione, ovviamente, non è un lavoro del critico o dello storico, che la Sicilia è un’”isola continente” (non è un’invenzione mia, ma di un grandissimo siciliano) così come Cuba. La Sicilia lo è soprattutto dal punto di vista geografico, visto che i tre lati dell’isola , le sue tre punte, guardano ciascuna ad un continente diverso. Per fare un esempio, noi, qui a Marzamemi, siamo “con i piedi” in Africa per 75 miglia, siamo a sud di Tunisisi. Cuba invece, è continentale, perché è frontiera storica delle ideologie e dei passaggi.

Molti dei film presentati sono documentari. Da direttore artistico e regista, quali pensa che siano la funzione e il potere espressivo del documentario, oggi? 

E’ una domanda che si fanno in tanti. La risposta è che il cinema nasce contemporaneamente sia come racconto di finzione, che come narrazione del vero. C’è un bellissimo cofanetto che uscirà con la cineteca di Bologna, l’ ”Invenzione del cinema dei fratelli Lumier”, che è stato rimasterizzato e restaurato dalla fondazione di Lione del cinema muto. Io credo che sia necessario vederlo per risolvere questo problema, attenzionando la prima inquadratura: l’uscita dalle officine Lumier. All’inizio si è pensato che quanto filmato raccontasse la realtà, collocandosi quindi nell’ambito del documentario. Dopo molti anni sono state trovate e restaurate altre riprese della stessa scena in cui si vedeva una carrozza uscire, carrozza che non era presente nelle precedenti pellicole. Se è così, questo significa che i fratelli Lumier non erano lì a riprendere quello che stava di fronte alla camera da presa, ma hanno fatto una messa in scena. E quindi la tua domanda ha già una risposta storica e scientifica quasi, perché all’inizio finzione e documentario erano strettamente legati tra loro. Poi le due strade si dividono, quando il modo di fare cinema diventa più complesso e vengono ampliati gli strumenti di comunicazione. Oggi credo che la differenza tra finzione e documentario sia dovuta più alla spinta di raccontare con radicalità alcune storie. Ad esempio nel film di apertura del festival “Sonita” vi è una commistione molto forte dei due registri. Quando questo meccanismo funziona, si genera una grande forza espressiva, perché la storia che noi spettatori stiamo guardando sullo schermo non è semplice finzione, ma è fatta di carne ed ossa.

 

 

 

 

Francesco Bellia