Il vero costo del “Fast Fashion”

Ogni giorno veniamo bombardati da migliaia di pubblicità che ci spingono ad acquistare, utilizzare, gettare ed ancora acquistare. La così detta società dell’usa e getta.In questo consumismo dilagante  la cosa che salta più all’occhio è l’affluenza in determinati negozi. Basta fare un salto in centro per vedere che i rivenditori di brand low cost pullulano di gente, mentre quelli dei marchi locali sono vuoti. È ora mi direte: ” perché devo spendere centinaia di euro per avere un capo firmato, quando posso avere il suo equivalente a prezzi stracciati?”. Facile, perché la moda, soprattutto quella del low cost ha un prezzo. Nel giugno del 2015 è stato presentato al Festival di Cannes un film documentario “The true cost”, diretto dall’americano Andrew Morgan e co-prodotto dall’italiana Livia Firth, moglie di Colin Firth. Morgan ha voluto mettere in scena le conseguenze del così detto “fast fashion”, ormai noto a tutti, ma che nessuno osa nominare.

Le origini di questa moda veloce risalgono all’800, quando si cominciò a produrre abiti in serie per le donne della classe media. Con gli anni si diffuse sempre di più attraverso i più noti marchi low cost. La particolarità di tali marchi è, principalmente, quella di puntare tutto sull‘economia della scarsità. Vi sarà capitato almeno una volta di entrare in una di queste catene, vedere un capo che vi interessa, ma decidere di temporeggiare. ” Ci passerò la prossimamente settimana” vi dite, ma la prossima settimana sarà troppo tardi, perché su quello scaffale, ormai, ci sarà un altro capo. Ed è proprio questa l’economia della scarsità sulla quale fanno leva questi brand.

L’interesse del venditore è proprio quello di indurre il compratore a pensare che se non lo comprerà oggi non lo troverà più.

Con la crescita esponenziale del settore tessile, negli anni sessanta, si è potuto assistere ad una rapida dislocazione di alcune fasi della produzione. È proprio in questo periodo che cominciano a nascere piccoli negozi che sarebbero poi diventati le grandi catene di adesso.  Il New York Times utilizzò per la prima volta il termine fast fashion nel 1989, quando Zara aprì il suo primo negozio a New York. Secondo l’articolo bastavano 15 giorni affinché un capo di Zara passasse dalla mente dello stilista alla vendita in negozio.

Quello che stiamo vivendo può essere considerato come una sorta di processo di democratizzazione della moda, un fenomeno economico che ha permesso a tutti di vestire bene seguendo le ultime tendenze, ma a bassi prezzi. Il concetto base è infatti quello di vendere qualcosa che sia accessibile, ma anche alla moda. Sostenere, in occidente , questi ritmi di produzione vuol dire  sostenere anche costi più alti, almeno in termini di manodopera, ed è per questo che si preferisce spostare la produzione, appaltando parte di essa, nei paesi in via di sviluppo dove la manodopera costa pochissimo e il più delle volte i lavoratori ( quasi sempre donne e bambini) vengono sfruttati.

Le donne guadagnano mediamente l’equivalente di 120€ al mese e sono spesso esposte a rischi che ledono la loro incolumità. Nel 2013 il crollo del Rana Plaza a Dacca, in Bangladesh, causò la morte di 1129 persone che lavoravano nei molti lavoratori di manifattura tessile presenti nel palazzo. Per non parlare delle centinaia di volantini di bambini scomparsi perché rapiti e costretti a lavorare nel settore tessile.

La società del consumo è il risultato di una assenza di limite. Quel limite che manca nella produzione, nel prelievo delle risorse rinnovabili, nella creazione di bisogni- quindi nella creazione di prodotti superficiali- e nell’emissione di scorie ed inquinamento. Questo accade perché siamo portati a confondere il bisogno, inteso come necessità, con il desiderio. Quest’ultimo, a differenza del bisogno fine a se stesso, crea dipendenza e una volta soddisfatto non provoca sensazione di sazietà. La creazione illimitata di desideri porta l’individuo ad una situazione di perenne frustrazione. Accade , infatti,  che il fast fashion come il fast food diventano una momentanea consolazione per dei bisogni più grandi che non possiamo permetterci, come l’acquisto di una casa, l’educazione dei figli, polizze assicurative…

Ma le conseguenze non sono solo umanitarie. È forte anche l‘impatto ambientale. Le grandi industrie non ci pensano più di due volte a gettare agenti chimici nelle acque, le stesse acque che poi verranno utilizzate dai contadini per produrre cotone che andrà a creare i capi che noi acquistiamo.

Una delle caratteristiche della moda è l’irripetibilità con la quale la modernità si propone, mai uguale a se stessa, sempre attinente al presente e mai al passato, con la quale si rinnova creando e aggiungendo sempre qualcosa di nuovo. Ed è proprio il senso del nuovo che ci spinge a voler acquistare sempre di più , tanto che negli ultimi anni siamo arrivati ad acquistare il 400% in più rispetto agli ultimi venti anni. Questo comportamento ci spinge a rinnovare sempre più spesso il nostro guardaroba buttando via gli abiti ormai fuori moda, ma quello che non si sa è che non tutti i tessuti sono biodegradabili e per essere smaltiti impiegano un periodo di tempo stimato intorno ai 200 anni.

Cosa possiamo fare? Prima di tutto comprendere che ognuno di noi può fare la differenza nonostante i diversi poteri d’acquisto. Acquistare più volte a settimana nelle grandi catene porta ad un aumento della domanda e di conseguenza ad un aumento della produzione, ma basterebbe diminuire la nostra frequenza agli acquisti per mandare un chiaro messaggio ai rivenditori: rallentare la produzione.

Francesca Valentina Troiano