Van Gogh: un piccolo principe nella favola del Giappone

Quando si parla di fascino, molti si perdono dietro una scia di fiori rosa che si distende beata tra i rami dei ciliegi e magari una musica orientale in sottofondo che rende il tutto più esotico e fatale. “Chi torna da un viaggio non è più lo stesso” è l’inno di speranza di quei viaggiatori che si augurano di incrociare, tra i vicoli del mondo, se stessi e qualcosa in più della routine. Ma viaggiare, si sa, è un arte che parte dalla mente perché tutti possiamo immaginare di correre lontano e arrivare nei luoghi che ci descrivono quelli che ci sono stati davvero. Attraverso i racconti, gli oggetti, i sapori ognuno viaggia a modo suo ed è proprio questo ciò che accadde quando, grazie alla Compagnia delle Indie, le stampe giapponesi giunsero in Europa e gli artisti se ne innamorarono follemente. Philippe Burty, abile incisore, diede un nome a questa sete orientale: Japonisme. Le fortunate stampe giapponesi, prime tra tutte quelle di Utamaro e Hokusai, ritraevano spesso scorci di vita quotidiana in cui spiccavano la figura della donna e il suo elemento, l’acqua. Le caratteristiche principali sono l’assenza di chiaroscuri e il colore piatto, su cui domina un taglio fotografico evidente. Bisogna tener conto che la Francia fu il luogo di maggior diffusione del Japonisme.

Nel 1861, l’orientalista Madami Desoye e il marito aprirono il primo negozio a Parigi, dedicato all’importazione di opere giapponesi. Inutile dire che fu un vero e proprio successo, attirarono l’attenzione di artisti del calibro di Monet, che espose un ritratto di sua moglie in abiti giapponesi alla Seconda esposizione Impressionista nel 1876, Degas, Manet e tanti altri. Ora, immaginiamo una strada francese bella e soleggiata, il mormorio dei passi degli altri e pittori squattrinati che mangiano solo la propria arte. Sì, c’è anche Van Gogh che si dirige di fretta verso la bottega di Tanguy, un commerciante di colori che, conoscendo le condizioni disagiate dell’artista, gli comprava i dipinti. La bottega di Tanguy, tuttavia, rappresenta un ricordo ben più prezioso nella vita di Van Gogh.


Infatti, fu proprio li che il pittore vide, per la prima volta, le stampe giapponesi e ne divenne un’amante vorace. Frequentò molti parigini, amici del fratello Theo, esperti di arte giapponese tra cui Siegfried Bing. Cosi, dal 1887, i quadri di Van Gogh si impregnarono d’Oriente e lo rivelano le prime nature morte e autoritratti quasi monocromatici. Poco più avanti, quando il legame con l’arte giapponese si trasformò in qualcosa di viscerale, il colore fu centrale e le nature morte finirono per invadere la maggior parte della tela, come era di consuetudine nelle stampe di Hokusai. Van Gogh è stato anche un uomo, una di quelle persone che non si dimentica e che non dimenticava nessuno. Una sensibilità lacerante e meravigliosa che lo costringeva a soffrire, ma anche a creare, lo spinse, allora, anche a fare ritratti e autoritratti. Ispirandosi alle trame giapponesi, dipinse “Il ritratto di Pere Tanguy” quattro volte e in due di queste opere molti elementi rievocavano sullo sfondo l’atmosfera delle stampe orientali.

L’influenza nipponica brilla in “Ramo di mandorlo in fiore” o in “Quattro girasoli appassiti”, dove Van Gogh ci parla, con dolcezza, dell’essenza dell’arte giapponese a cui lui si stringe attorno con tutto se stesso.

L’artista guardò al Giappone come alla concretizzazione di quell’ideale di solidarietà, di fratellanza consolidata con la natura e tra gli essere umani e scrisse ”Ma insomma, non è quasi una vera religione quella che ci insegnano questi giapponesi così semplici e che vivono in mezzo alla natura come se fossero essi stessi dei fiori? E non è possibile studiare l’arte giapponese, credo, senza diventare molto più gai e felici, e senza tornare alla nostra natura nonostante la nostra educazione e il nostro lavoro nel mondo della convenzione“. Quindi, per lui il Giappone non rappresentò solo una stampa da cui attingere, ma uno status spirituale da raggiungere. E il solo modo per corteggiare questo obiettivo fu cercare e vivere in un ambiente che avesse i riflessi del mondo giapponese, quindi nel febbraio 1888, giunse ad Arles, in Provenza e trovò quell’armonia ordinata di colori e luce, di sole e ombre che cercò per tutta la sua vita dentro se stesso. Avrebbe voluto dar vita ad una nuova comunità di artisti, rimanere dentro la favola orientale, ma i fatti ci raccontano ben altro. La vita di ognuno di noi è come una bottiglia a cui, alla fine affidiamo un messaggio e quello di Van Gogh è di non smettere mai di cercare se stessi, di distruggersi per reinventarsi ancora e dipingersi come nuovi.

Alessandra Nepa