Sara Simeoni, la storia casuale di una donna normale che divenne speciale

Un anno importante il 1968: anche nello sport avvennero fatti eclatanti e cambiamenti storici. Alle Olimpiadi di Città del Messico Tommie Smith e John Carlos, statunitensi neri, salirono sul podio protestando col pugno inguainato di nero e il loro geniale connazionale Dick Fosbury vinse la gara dell’alto con un salto nel tempo poiché ideatore di un proprio stile personale: lo scavalcamento dorsale anziché ventrale.

Questa rivoluzionaria impresa diffuse a macchia d’olio l’uso del cosiddetto Fosbury Flop, inaugurando una nuova era della specialità. Anche in campo femminile numerose adepte diedero l’assalto ai loro personali agevolate dalla nuova tecnica, mentre le più accreditate lo perfezionarono in vista dell’appuntamento Olimpico. Si fecero così largo la sedicenne tedesca federale Ulrike Meyfarth trionfatrice a Monaco di Baviera nel 1972 e la giovane principessa italiana Sara Simeoni piazzatasi sesta. Quella che presto sarebbe diventata nostra signora delle pedane, si mise poi in evidenza con un’eccellente secondo posto ai successivi Giochi di Montreal del 1976, dove però s’impose la poderosa tedesca dell’est Rosemarie Ackermann che, un anno dopo saltando 2,00 m. stabilì a Berlino il record mondiale: prima donna al mondo a superare tale misura, rimase unica e artefice principale di una decisa restaurazione adottando lo stile tradizionale.

Ebbene da quel momento in poi la tenace Sara che ormai da tempo si batteva con essa ad armi pari, prese lo slancio e costrinse l’acclamata sovrana proveniente dalla Pomerania a guardare sempre più nello specchio delle sue prestazioni per rassicurarsi d’essere la più brava del reame.

Così un giorno lo specchio diede un’altra verità: era il quattro agosto 1978 di una dolce e quieta sera, quando la venticinquenne Sara Simeoni scaricò sulle lunghe gambe da cicogna i suoi 60 kg contenuti in 1,78 d’altezza per sorvolare dolcemente l’asticella posta a 2,01 m. e atterrando sorridente batté freneticamente le mani. Lo storico record detenuto dalla sua amica nemica, era dunque superato di un centimetro: la lunga rincorsa al tetto del mondo misura dopo misura era finita, era lei la regina indiscussa del salto in alto. Quell’anno vinse anche il titolo europeo eguagliando il suo fresco primato mondiale, a spese dell’irriducibile   teutonica staccata di 2 cm.

Ancora qualche tempo ed ecco il sorpasso definitivo: l’oro del Reno diventa l’oro dell’Adige. Alle Olimpiadi di Mosca 1980, mentre la sua eterna rivale all’ultima cavalcata da Valchiria finì solo quarta, la veronese Sara conquistò il podio più alto mettendosi al collo l’ambito trofeo. E fu quasi dello stesso identico umore, quando vinse una medaglia d’un altro colore: l’argento del secondo posto ottenuto mantenendosi su livelli d’eccellenza con un salto di 2,00m alle spalle della rediviva Meyfarth, dipinse il suo sereno tramonto alle Olimpiadi di Los Angeles del 1984. Carismatica portabandiera azzurra in quella occasione, avrebbe di lì a poco abbandonato i grandi palcoscenici partecipando come ultima gara internazionale agli europei di Stoccarda del 1986. Classe 1953, Sara ha saltato dai tredici ai trentatré anni per venti stagioni e quando esse incominciarono ad assomigliarsi troppo appese le scarpette al chiodo. 

Quelle scarpette che sarebbero diventate bianche accoppiate al tutù, se fosse stata alta qualche centimetro in meno e invece, scartata ad un provino di danza classica, si dedicò alla conquista di qualche centimetro in più attirata irresistibilmente da uno sport che non mente mai: i risultati sono numeri inconfutabili.

Questa favola ha una morale: è la storia in qualche modo casuale di una ragazza apparentemente normale che divenne speciale. Sara Simeoni è stata un simbolo per le donne italiane: affascinò l’Italia, semplice ma combattiva, vinceva e perdeva con grazia, stile e femminilità.

Puntigliosa, seria e determinata, ma anche dolce, leggera e delicata accoppiò a queste qualità l’innato talento artistico poiché un salto bene eseguito è un’opera d’arte che diventa miraggio.

Vincenzo Filippo Bumbica