Paolo Villaggio: un geniale comico genovese e la tragica realtà del Belpaese

Re Carlo tornava dalla guerra Quel sovrano brutto, cialtrone e maschio prepotente, tutto il contrario del romantico e raffinato re senza corona e senza scorta de La canzone di Marinella, è anche frutto della fantasia di un irriverente cabarettista genovese alle prime armi nel mondo dello spettacolo, concittadino e amico fin dal dopoguerra di Fabrizio De André, autore di entrambe le due canzoni, e occasionale collaboratore nella stesura del testo della prima. Si tratta di un’ironica filastrocca contro il potere, atipica per il suo contenuto sociale e originale per la partitura musicale che riprende lo stile da trovatore medioevale connaturato in quell’inimitabile menestrello diventato poi uno dei più grandi cantautori della storia della musica italiana.

Paolo Villaggio, così si chiama quel compare di scorribande giovanili che con Faber, da lui così prontamente ribattezzato, oltre a dissipare intere nottate tra osterie e amici, aveva già prodotto il testo musicale de Il fannullone che ben si adattava al loro stile di vita di quel periodo. I due accomunati da una straordinaria creatività prendono strade diverse e qui comincia l’avventura nell’altra metà del cielo dello spettacolo di quel giovane attore a prima vista buffo, ma anche alla seconda, che accoppia però la non comune capacità di inventare all’unisono personaggi sconcertanti e storie surreali correlate tra loro, alla irrefrenabile voglia di dissacrare ambienti, situazioni, usi e costumi del tempo.


Dopo una lunga gavetta nella antica compagnia teatrale genovese dei Baistrocchi come autore di testi e presentatore a modo suo, l’originale artista con quel tipo di nuova comicità incuriosisce e conquista Maurizio Costanzo, il suo primo scopritore, che nel 1967 lo convince a esibirsi nel noto e ben frequentato cabaret romano Sette per Otto. Qui alla presenza di nomi eccellenti dello spettacolo italiano quali Garinei e Giovannini, Ugo Tognazzi e un Ennio Flaiano particolarmente divertito, il semisconosciuto cabarettista ligure riscuote un lusinghiero successo sull’abbrivio del quale debutta al Derby, lo storico locale fucina del cabaret milanese assieme a Cochi e Renato e al contempo stringe amicizia con notevoli artisti dell’epoca: ”Milano è la città con i ricordi più felici della mia vita, quella delle notti in giro con gli amici Giorgio Gaber, Pozzetto e quel tiratardi di Umberto Simonetta. Ora, pare si sia trasformata in un feudo di sarte”, in una delle sue ultime interviste, emerge una malcelata nostalgia con ancora un’inevitabile punta dell’antico sarcasmo.

Quello stesso anno debutta nel programma radiofonico, “Il sabato al Villaggio” nel quale rende palpabili le difficoltà del vivere di uno stralunato impiegato e così entra vento in poppa nel cast televisivo di “Quelli della domenica”, scritto da Marcello Marchesi, Italo Terzoli ed Enrico Vaime e lo stesso Costanzo e condotto assieme a Cochi e Renato, Ric e Gian, e Lara Saint Paul. Nei panni di un presentatore sui generis che, diversamente dal solito, aggredisce rabbiosamente il pubblico con un intercalare colorito e inconsueto, Paolo Villaggio all’interno dello stesso programma ribadisce la sua inesauribile vena creativa presentando due personaggi assolutamente singolari e diversamente complementari: Il sadico professor Kranz, “tetesco di Germania”, però impreciso e pasticcione e il tenero Gian Domenico Fracchia, un timido impiegatuccio  succube del nevrotico capoufficio Gianni Agus.

L’effetto dirompente del programma, a partire dagli indici di ascolto per finire nella critica, sfocia in un inaspettato successo e siccome ogni riuscita è come una scossa di terremoto: se ne aspetta sempre un’altra, non passa un anno che Villaggio in pompa magna venga ricandidato alla conduzione di “È domenica ma senza impegno” un varietà consimile al precedente seppur riveduto e corretto a cominciare dal cast: Il Quartetto Cetra, Oreste Lionello e Ombretta Colli si aggiungono ai confermatissimi Cochi e Renato. È la beatificazione dell’impietosa verve comica di uno scomodo personaggio che non risparmia niente e nessuno, soprattutto certi ambienti gerarchici dove si mettono in moto gli squallidi meccanismi tipici del ceto impiegatizio.

Ormai la televisione è padrona del domani quotidiano del telespettatore perché l’oggi lo ha già comprato subito e a poco prezzo e quel bastian contrario di un genovese, vira di bordo per altre destinazioni e punta decisamente le vele verso il porto più accogliente per uno come lui: quello del cinema. Del resto aveva già avuto importanti esperienze cinematografiche a cominciare da primi anni settanta nei quali girò, assieme al Gassman dal rutilante poetar, la commedia “Brancaleone alle crociate” di Mario Monicelli; seguito poi, sempre con Vittorio Gassman anche regista, dall’inesorabile realtà del drammatico” Senza famiglia nullatenenti cercano affetto”; dal grottesco “Alla mia cara mamma nel giorno del suo compleanno” di Luciano Salce e dal surreale e intrigante film di Pupi AvatiLa marchesa del barone, della santa e del fico fiorone” con un partner per l’occasione rampante e ruspante: l’amico Ugo Tognazzi.


“Quand’ecco che la creatura che aveva in grembo da molto tempo, annunciata dall’arcangelo Gabriele, viene finalmente alla luce il ragioniere Ugo Fantozzi, discendente di Kranz e figlio naturale di Fracchia, il piccolo diventato subito adulto ben presto segue le orme del padre e s’inserisce nell’infinito gregge degli impiegati di concetto. Sposato con la signora Pina, una donna remissiva, sciatta e un po’ bruttina, che gli regala Mariangela, una figlia d’incomparabile bruttezza, innamorato perso della conturbante collega d’ufficio la vaporosa signorina Silvani, l’omino ghermito fin dai primi vagiti dalla spietata signora dai denti verdi vestita di nero chiamata sfortuna, diventa il prototipo del perdente senza speranza, del mediocre senza scampo, dell’uomo senza qualità”.

Sembra quasi di sentire fuori campo a commento dello straordinario evento e delle sue nefaste conseguenze il vocione caricaturale dello stesso Villaggio, ineffabile padre putativo di un personaggio che dal 1975 in poi rappresenta il simbolo dell’Italia che cambia o vorrebbe cambiare. È sempre l’altro: il vicino di casa vessato dagli eventi, il collega di lavoro che non fa carriera, l’amico mediocre che non scopa mai. Fantozzi è tutto quello che l’italiano all’apparenza non è: ingenuo nel farsi turlupinare da chiunque; puro al punto di condividere sentimenti e speranze con una vasta sottospecie di lazzaroni qualificati; ligio al dovere fino allo stoicismo: unica eccezione di un ambiente dove assatanati colleghi praticano la selvaggia tecnica dell’imboscamento totale e purtroppo infinitamente codino al tal punto da prostrarsi prima di stendersi come un tappetino di fronte al potente di turno. Una maschera insomma che in qualche modo richiama i personaggi della commedia dell’arte, travalicando i confini regionali per assurgere alla dimensione nazionale.

Dal cinema alla società il passo è breve: i primi due film della saga diretti con il solito acume da Luciano Salce, oltre all’impietoso ritratto di un misero esemplare umano che beato osserva nuotare come pesci leggiadri i colleghi in un surreale acquario, contengono un divertente florilegio di monumentali paradossi, di sottili eufemismi, e di tutta una serie di congiuntivi storpiati che ben si accoppiano alle corrispettive  caricature umane, ed entrano a far parte del lessico quotidiano e del costume di quel tempo che ci accompagna da più di quaranta anni  fino ai giorni nostri. A questo punto, con Fantozzi al timone che guida una barca di film a lui dedicati, Paolo Villaggio continua indefesso il suo navigare nelle acque appena increspate del cinema nostrano e i titoli non si contano più. Ancora Salce, poi Steno e infine Neri Parenti, tanto per citarne alcuni di quelli bravi, dirigono il bulimico interprete in pellicole che per la loro ripetitività via via perdono d’intensità e diventano sempre più scolorite e banali nonostante il suo conclamato talento e il prodigarsi di tanti ottimi attori: Diego Abatantuono, Johnny Dorelli, Lino Banfi, Edvige Fenech, Ornella Muti, Renato Pozzetto, sono tra quelli che maggiormente, caratterizzano tutta la sua filmografia degli anni ottanta.

All’inizio della nuova decade Paolo Villaggio proprio in virtù della sua bravura e a compendio del suo indefesso lavoro svolto con coscienza e professionalità, viene chiamato alla corte del grande Federico Fellini che lo vuole co-interprete assieme a Roberto Benigni di “La voce della luna”, un film che è un suo vero moto dell’anima, dove due anime pure ingenue e candide di fronte al chiassoso avanzare dei riti moderni tentano di conservare il valore dell’incantamento silenzioso e la poetica e delicata atmosfera dei sapori antichi smarrita nel tempo. In questa sintomatica e ancestrale interpretazione, alla fine emerge la figura definitiva dell’uomo: colto, impegnato, divertente e divertito, un attore geniale che ebbe anche il grande pregio di non prendersi mai troppo sul serio, che non è umiltà: quella è la maggior forma di presunzione e il nostro nascosto sotto la protettiva ala dei suoi singolari personaggi, ne possedeva tanta forse troppa: ma tant’è.

E dunque non si può in alcun modo legare solo a uno di questi.”Ti sia lieve la terra”, caro amico che il tre luglio di quest’anno, dopo una parabola durata 85 anni, hai lasciato questo mondo con forse una punta di amarezza, ma sicuramente col sorriso sulle labbra. “Una risata seppellirà il mondo disse qualcuno” e tu autoironico come sempre, hai cominciato a seppellire te stesso.

Vincenzo Filippo Bumbica