La Lombardia ha davvero gestito male l’emergenza da Covid-19?

La Lombardia è una di quelle Regioni, economicamente parlando che trainano il Paese. La maggior parte delle industrie si trovano lì. E’ un polo specializzato per la maggior parte dei settori economici. Un gran numero della ricchezza economica di quest’Italia (oramai martoriata dal Covid-19) nasce e cresce in Lombardia. Inutile negarlo.  Che poi il milanese (in molti casi “imbruttito”) se la tiri è un’ennesima certezza.

I lombardi sono un pò un mondo a sé. Lo dimostra il fatto che a Milano, dopo il lockdown di Codogno del 23 febbraio, venivano organizzati gli aperitivi con l’hastag Milanononsiferma.  Poi invece vi siete fermati anche voi. Perché il Coronavirus non guarda in faccia a nessuno. Non c’è una serie A o una serie B. Nessuno è immune. Soprattutto una regione popolosa come la Lombardia, dove una quantità impensabile di persone si muove ogni giorno per andare a lavorare. Ed i numeri ne sono stati la riprova. Ad oggi, nonostante il numero dei contagi stia man mano scendendo, i  numeri della Lombardia rimangono comunque alti.

Il “Paziente 1”

Mattia, 38 enne, è passato alla storia come il primo paziente italiano ad aver contratto il Covid-19. E’ da Mattia che inizia, il 21 febbraio,  la nostra emergenza sanitaria e, geograficamente parlando, da Codogno. In provincia di Lodi ed a 50 km da Milano è stato il primo Comune d’Italia a diventare zona rossa. Un territorio completamente isolato: nessun poteva entrare od uscire da quella zona. I treni non si fermavano a Codogno. I corrieri non consegnavano più. Gli abitanti dovevano uscire di casa il meno possibile. Quello che per il resto d’Italia sembrava un sogno, per Codogno era un incubo. E lo sarebbe diventato per tutta Italia.

Il virus, però, si era già diffuso fuori dal lodigiano, lo testimoniano i numerosi pazienti che prima di quel 21 febbraio si erano recati in ospedale con i sintomi del Covid. Fabrizio Pregliasco, virologo dell’Università di Milano e direttore sanitario dell’Irccs Galeazzi, ha infatti dichiarato:

“Il virus in Nord Italia c’era dalla fine di dicembre, dall’inizio di gennaio, quindi il “Paziente 1” poteva essere il paziente 200, o chissà”

Per mesi l’Organizzazione mondiale della sanità ed il Ministero della salute italiano,  hanno spiegato che era possibile riscontrare un caso di Coronavirus. Il paziente dove avere come sintomi un “Infezione respiratoria acuta grave, con febbre e tosse che ha richiesto il ricovero in ospedale”. Per essere riconducibile al Covid- 19 era necessaria però un’ulteriore condizioni, assolutamente necessaria: “Storia di viaggi a Wuhan, provincia di Hubei, Cina, nei 14 giorni precedenti l’insorgenza della sintomatologia”.

Mattia non era stato a Whan, ma aveva cenato con un amico che aveva fatto un viaggio in Cina. E’ per questo che gli è stato fatto il tampone, che ha poi avuto esito positivo. Quello effettuato sull’amico invece ha avuto esito negativo, conseguentemente non poteva esser stato lui ad attaccarlo a Mattia. La motivazione necessaria del viaggio in Cina inizia così a vacillare. Non esiste quindi un “Paziente 1”. Mattia è semplicemente il primo caso di tampone positivo al Covid-19 in Italia.

Soltanto il 22 febbraio, il Ministero della salute pubblica una circolare nella quale viene data una nuova indicazione per la diagnosi che amplia le possibilità di riscontro, escludendo i viaggi dalla Cina.

Dopo Codogno, Alzano Lombardo

Il 23 febbraio nell’ospedale di Alzano Lombardo viene individuato il primo caso di Coronavirus. Il Covid-19 era arrivato così dal lodigiano all provincia di Bergamo.  L’ospedale di Alzano viene chiuso, ma a differenza di quello di Codogno riapre dopo poche ore. Pazienti e loro familiari, oltre al personale sanitario, in quei giorni si infettano proprio in ospedale, ma verranno lasciati liberi di circolare senza essere sottoposti al tampone. Innumerevoli le testimonianze di chi nelle settimane successive ha perso un proprio caro che era ricoverato in ospedale già da tempo e per tutt’altre patologie non riconducibile al Covid-19.

Il caso Atalanta-Valencia

Il 19 febbraio San Siro ha ospitato la partita di Champions League Atalanta-Valencia. In un’intervista rilasciata al Corriere dello Sport, l’infettivologo Francesco Le Foche ha  dichiarato:

Bergamo è un’anomalia e in quel distretto ci sono stati tanti catalizzatori che hanno fatto esplodere la diffusione, come l’operosità della zona e forse anche la partita Atalanta-Valencia: l’apice dell’entusiasmo per un club che può aver portato a tanti contagi, tante persone vicine ed euforiche che si abbracciano”.

Gli ospedali e le RSA

In poco tempo sono diventate bombe ad orologeria. I luoghi dove era più possibile il contagio. Basti pensare che al 17 marzo, quando gli operatori sanitari ammalati erano 2629. Nei trenta giorni successivi il numero di medici, infermieri e operatori sanitari che hanno contratto il virus è aumentato in maniera vertiginosa arrivando a 17300 positivi.

Il 21 marzo, i medici dell’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo, hanno pubblicato uno studio condiviso con la comunità scientifica su quanto avevano avuto modo di imparare nelle prime settimane di emergenza: “Stiamo imparando che gli ospedali possono essere tra i maggiori trasmettitori del Covid-19 in quanto velocemente popolati da pazienti infetti, hanno facilitato la trasmissione ai pazienti non infetti. Il personale sanitario è portatore asintomatico, o malato ma senza riscontro. Negli ospedali la protezione del personale dovrebbe essere prioritaria. Non dovrebbero esserci compromessi nei protocolli, i dispositivi devono essere reperibili”.

Dopo Codogno, molti sono stati i primi cittadini a chiedere la chiusura dei propri comuni. Nembro, per esempio, non è mai stato zona rossa, nonostante il numero altissimo di casi. Dopo il lockdown di Codogno, Roma aveva come perso la strada di casa. La politica ha vacillato. Lo status emergenziale ha fatto sì che la nostra classe politica non rispondesse in maniera rapida. Come in una partita di ping pong, le colpe sono state rimpallate dai vertici regionali a quelli nazionali e viceversa.

Il 3 marzo l’Istituto superiore di sanità chiede che Nembro ed Alzano Lombardo vengano dichiarate zone rosse perché il numero di contagiati aveva superato quelli di Codogno. Nonostante fosse già tutto predisposto, né il Governo, né la regione Lombardia autorizzano la chiusura.

“Non è stata fatta la zona rossa a Nembro non glielo posso dire io, lo dovete chiedere al Governo, il potere di fare la zona rossa ce l’aveva il Governo, non certo noi perché l’avevamo chiesta.

Queste le parole di Fabrizio Sala, vicepresidente della Regione. In realtà, però, anche la regione Lombardia aveva il potere di dichiarare la zona rossa, ma a differenza di altre regioni, dall’Emilia Romagna fino alla Calabria, ha deciso di non esercitarlo.

Proprio in quella settimana, Confindustria spinge affinché le loro imprese non vengano intaccate dalle restrizioni. A spiegarlo è ancora il vicepresidente della regione Lombardia: “Confindustria ha chiaramente chiesto di non chiudere tutte le sue attività”.

Giulio Gallera

Assessore al Welfare della Regione Lombardia è stato certamente un’uomo che durante questa pandemia ha fatto parlare di sé. Deciso a farsi conoscere anche fuori dai confini lombardi, ha tenuto compagnia agli italiani con le sue conferenze stampa alla “Borrelli maniera”.   Gallera non snocciolava solo dati, ma commentava spesso l’operato degli altri. Già, ogni giorno aveva da ridere su quello che stavano facendo nelle altre regioni. E questo l’ha fatto fin dal primo momento, già quando il Coronavirus non aveva contagiato mezza Milano. All’inizio l’incubo era Rossi e la popolazione cinese di Prato, poi ce l’aveva con i governatori del sud che avevano accolto coloro che, in un sabato sera non proprio ordinario, avevano invaso la stazione centrale di Milano per tornare dalle proprie famiglie.

Per non parlare poi di tutto quello che “ho letto su Facebook”. Uno dei “luoghi” con il maggior numero di Fake News presenti in assoluto. Un social che andrebbe quasi bandito in casi di pandemia, dove le persone (oramai frustrate) passano le giornate a insultare quelli in fila al supermercato o a dare il toto numero riguardo alla macchine che sono passate sotto al balcone in un’ora.

Il governatore Attilio Fontana

Fontana, nonostante la disastrosa situazione della Lombardia, sta spinto per la riapertura del 4 maggio. L’economia della regione ha bisogno di ripartire, ha sostenuto in più occasioni. La necessità di non arrestare il processo economico di una regione così industrializzata più di quanto già è stato è sicuramente uno dei noccioli chiavi della questione, ma è chiaro che la tutela della salute deve essere al primo posto. Questo perché nonostante alcune terapie intensive degli ospedali lombardi abbiano incominciato a prendere un pò di respiro, liberando vari posti letto, è chiaro che allentando le misure restrittive si potrebbe tornare ad un boom di contagi.

Saranno, secondo la Regione le 4 direttrici fondamentali durante la riapertura: distanziamento, dispositivi, digitalizzazione e diagnosi. Si dovrà, quindi, rispettare la distanza di sicurezza di un metro, portare obbligatoriamente la mascherina nei luoghi pubblici, implementare tutte le modalità di smart working per tutte le attività che possono praticarlo e disporre test sierologici a tappeto.

Le colpe, in tutta quest’emergenza straordinaria, sono molte. Nel caso della Lombardia non sono solo di Attilio Fonata, di Giulio Gallera, di Sala. Non sono solo di Giuseppe Conte. Le colpe sono molte e sono di molti. Sono di una classe politica impreparata ad una pandemia. C’è da tener presente però che, in un momento in cui le notizie, anche quelle ufficiali sono state così diverse e disparate tra loro, spesso anche contraddittorie, trovarsi preparati al 100% non sarebbe stato certo semplice. La nostra classe politica è pur sempre fatta di persone che tutto hanno studiato fuorché medicina. Non sono virologi, né infettivologi. E quella che inizialmente era stata definita da molti medici un’influenza ha scatenato livello mondiale una pandemia.

Ricordiamoci però che numeri dati ogni giorno da Borrelli non sono semplici cifre, ma sono persone. Sono mogli, padri, figli, fratelli, amici. Sono medici, infermieri ed operatori socio sanitari. Ci sono intere famiglie che sono state spazzate via dal Covid-19. Questo non và dimenticato. Mai.

 

Sharon Santarelli