La foresta dei sogni: il purgatorio verde dell’anima

Dopo aver partecipato a Cannes nel 2015, “La foresta dei sogni” di Gus Van Sant (regista di “Will Hunting” e “Milk”) esce anche nelle sale italiane. Ciò che colpisce subito nel film è senz’altro l’ambientazione. La storia infatti si svolge nella foresta di Aokigahara in Giappone, un vero e proprio “mare d’erba” (questo il significato del nome) alle pendici del monte Fuji, tristemente rinomata per l’elevato numero di suicidi che ogni anno si verificano al suo interno (qui un articolo di Socialup).

Un luogo macabro e inquietante, ma anche carico di mistero che viene scelto dal protagonista del film, interpretato da Mattew McConaughey, per porre fine alla sua vita. Un biglietto di sola andata per raggiungere il “luogo perfetto” in cui morire. La pellicola si apre proprio con l’arrivo dell’americano in Giappone. L’uomo, dopo aver attraversato con sguardo distante e disilluso la frenesia di Tokyo, raggiunge ben presto l’entrata della foresta, che sembra quasi isolata dal resto del mondo, almeno da quello dei viventi, per essere più vicina forse a quello dei fantasmi, così come raccontano le leggende giapponesi. Una volta entrato, però, scopre di non essere solo. Assieme a lui vi è un altro aspirante suicida, un giapponese (Ken Watanabe) che sembra essersi pentito del suo gesto. E’ ferito e vuole trovare la via d’uscita. Trascurando i suoi macabri propositi di morte, il protagonista si offre di aiutarlo. Ma ben presto entrambi scopriranno quanto sia difficile uscire…

Con grande mestiere Van Sant ci introduce gradualmente nel labirinto di Aokigahara, metafora naturale del labirinto della sofferenza. La tensione, malgrado la drammaticità del tema, non è subito opprimente per lo spettatore, perché costruita per gradi.

In tal modo suscita invece curiosità e aspettativa verso il luogo e i retroscena dei protagonisti. Il regista alterna  i dialoghi e il peregrinare dei due dispersi, costretti a superare gli ostacoli della foresta, con la storia personale di Arthur Brennan (il protagonista americano), analizzando il suo complesso rapporto con la moglie (Naomi Watts) e le motivazioni che lo hanno spinto in quel luogo.

E’ così che il vacuo procedere all’interno della foresta assume invece i contorni di un viaggio nella propria interiorità, per scavare dentro se stessi fino a trovare le risposte. L’inquietudine c’è, ma non è soffocante. Emerge nella sua problematicità, divenendo più acuta in alcuni momenti, senza essere mai banale, merito dell’intrigante sceneggiatura (la cui unica pecca è l’incidente automobilistico, superfluo ai fini della storia). Ottimi i dialoghi tra Naomi Watts e Matthew McConaughey, di impianto teatrale, che mostrano con realismo la conflittualità della relazione tra marito e moglie, difficile da attribuire alla colpa o al rimpianto di uno solo dei due. Le interpretazioni dei due attori sono di alto livello.Un duo che funziona sin dalla prima scena che li vede comparire insieme. L’attore statunitense in particolar modo sorregge il film in ogni sua parte, riuscendo a comunicare anche solo con lo sguardo, l’abisso in cui puo’ perdersi un uomo sull’orlo del suicidio. Un’intensità che conferma la sua assoluta capacità di immedesimarsi nel ruolo. La regia, le musiche, l’ambientazione, rendono la foresta dei sogni un film profondo, ma anche delicato, che ha un finale positivo e catartico. Il sovrannaturale è solo sfiorato, con eleganza, con un gusto che per certi versi sembra attingere al cinema orientale più che a quello occidentale. Nella cultura nipponica, infatti, gli spiriti vivono in mezzo agli esseri umani ed essi non si stupiscono della loro presenza, anzi credono fermamente che l’ascoltarli possa essere importante per risolvere i propri problemi. E’così che la foresta diventa un “purgatorio” come dice il giapponese in una battuta del film. Un “mare d’erba” per imparare a districare le foreste della propria anima.

 

 

 

Francesco Bellia