Editor, consulente editoriale e digital strategist per privati e case editrici, tra cui Feltrinelli, Alessandra Zengo conosce molto bene le dinamiche dell’editoria italiana. Social up l’ha intervistata per voi.
Salve Alessandra, grazie per la tua disponibilità.
Cominciamo innanzitutto dalla tua attività di editor. Qual è il compito fondamentale di un editor, oggi, secondo te? Qual è il tuo modo di svolgere questa attività?
Dipende se è un editor dipendente o un editor freelance. Nel primo caso, il suo compito fondamentale è scegliere i libri giusti, e nella maggior parte dei casi, se parliamo di grande editoria, i libri giusti sono anche quelli che vendono. Nel secondo caso, invece, è correggere bene i manoscritti che gli sono stati affidati.
Come svolgo la mia attività? A dire il vero, non edito moltissimo, non quanto un editor che si dedica soltanto a quello. Io non ci riesco. L’editing è un lavoro davvero pesante — almeno per me — perché richiede tantissima concentrazione, e preferisco alternarlo con altre attività, per cambiare ambiente, stimoli, azioni. Così non rischio di impazzire, e sono molto più attenta ai manoscritti che correggo. Non ho fretta di finire solo perché ne ho altri dieci da correggere. Sono una perfezionista: a volte è un pregio, altre una condanna.
Sempre più persone si cimentano con la scrittura. Le case editrici sono “affollate” da pile di manoscritti e molti autori ricorrono spesso all’auto-pubblicazione. Come vedi la situazione editoriale italiana oggi?
Quanto spazio abbiamo? Per rispondere seriamente e sinteticamente, comunque, siamo ancora in una fase di cambiamento e assestamento. Il self-publishing sta crescendo e, come riporta l’ANSA, “nel 2017 si stimano oltre 30.000 titoli, oltre il 45% di tutti quelli pubblicati”. In effetti, gli editori tradizionali se ne sono accorti da tempo, e dal 2014 hanno cominciato a ri-pubblicare opere self.
Allo stesso tempo, però, è ancora difficile per un autore poter guadagnare bene con l’autoproduzione, nonostante le royalties, in percentuale, siano maggiori. Si fa fatica perché il mercato non è grandissimo, perché la concorrenza aumenta, perché per promuoversi c’è bisogno di tempo (da sottrarre alla scrittura, magari). La lista di motivi, insomma, è lunghissima.
E, checché se ne dica, anche nel self-publishing non trionfa sempre la qualità. È più probabile che sia una scrittrice di romance a guadagnare 1000 o 2000 euro al mese, piuttosto di una che scrive mystery o literary fiction o altro. E per una che ha successo, altre centinaia racimolano pochissime vendite e faticano a produrre l’opera successiva senza andare in perdita.
Dall’altro lato, il digitale continua a crescere, ma riguarda ancora soltanto il 5/6% del mercato. E le case editrici non brillano proprio per innovazione.
Il mondo delle agenzie editoriali, dei service e dei freelance merita un discorso a parte. Sono sempre di più per due motivi: l’aumento esponenziale della richiesta da parte dei self-publisher che scelgono i collaboratori per produrre i propri testi; la progressiva esternalizzazione del processo produttivo all’interno delle case editrici, che si affidano a esterni per impaginazione, redazione, editing, grafica, ecc.
Come possono fare gli esordienti per essere letti dalle case editrici?
Ci sono tre vie.
- Cercare online e alle fiere, fare una lista di case editrici che pubblicano lo stesso genere del libro che s’intende proporre (controllare le collane, per esempio), mandare una proposta di lettura agli editori che consentono l’invio diretto. L’importante è seguire le istruzioni riportate nel sito web: se chiedono solo sinossi e primi capitoli, non è il caso di allegare l’intero manoscritto.
- Affidarsi a un agente letterario che gestisca l’invio del testo agli editor (e non, quindi, a un indirizzo generico della redazione) e poi contratti le condizioni migliori per la pubblicazione, nel caso uno o più editori siano interessati.
- Auto-pubblicarsi (o pubblicare racconti su blog e riviste, ma questo è già old fashioned, se non per la narrativa letteraria) e aspettare di essere notati.
Cosa pensi del self-publishing?
Il self-publishing è un’ottima opportunità per gli scrittori, e non solo. Ora chiunque può creare e pubblicare un libro, senza alcuna intermediazione: è la democraticità della rete.
Non c’è più nemmeno bisogno di un budget iniziale, se si è capaci di fare tutto da soli. E qui sorgono i problemi: chi è capace di fare tutto ciò che serve per produrre un libro? Ben pochi, credo.
Ecco dove sorgono i problemi: il self-publishing è veloce, velocissimo, e in meno di ventiquattro ore un romanzo può essere online, almeno in e-book (per il cartaceo i tempi sono più lunghi). E notoriamente gli scrittori hanno fretta, fretta, fretta più del Bianconiglio, e vogliono vedere il proprio scritto nelle librerie (almeno quelle virtuali), a scapito della qualità.
Il fatto che non ci siano più attese “costrette” e “costrittive” — per ricevere una risposta da una casa editrice si aspetta dai 3 ai 9 mesi, quando arriva — non giova agli autori “in fregola” da pubblicazione, e i risultati si vedono.
E poi c’è la questione “risparmio”. Non tutti gli autori possono permettersi di pagare l’editing professionale (la spesa più ingente nel self), l’impaginazione su InDesign, la grafica di copertina, ecc. Qualcosa cercano di fare da soli, il resto lo chiedono a persone non esattamente del mestiere, che però hanno prezzi bassissimi: una copertina a 10-20-30 euro, un editing a 0,50/1/2 euro a cartella. Ovviamente, è legittimo, tuttavia ecco spiegato il motivo per cui Amazon è infestato da libri prodotti malissimo, e non parlo solo del contenuto, ma di tutta la confezione.
E invece delle agenzie letterarie italiane?
Long story short: sono poche, e sono ancora meno quelle veramente serie, che lavorano bene a ogni livello e fanno gli interessi dei propri autori. Fioriscono le micro-agenzie (un autore, però, è capacissimo di arrivare ai piccoli editori da solo); gli agenti a cui non basta la percentuale su anticipi e vendite (un onesto 10%), ma inventano spese per avere subito un po’ di soldi (devo pagare le trasferte e le cene con gli editor, io!); oppure quelli che subappaltano l’editing dei manoscritti (quelli, cioè, degli autori che rappresentano) a qualche freelance / service esterno da cui riceve una percentuale. A pagare è l’autore, ovviamente, anche se così non dovrebbe essere.
Segui molto da vicino le dinamiche dell’editoria. Hai cominciato con un blog collettivo e una rivista letteraria e hai continuato organizzando rassegne culturali, facendo la giurata per diversi concorsi e la redattrice, lettrice e scout. Quali pensi siano le proposte editoriali più valide dell’ultimo periodo? Quali sono attualmente le migliori case editrici italiane, a tuo parere?
Non ho letto tutte le pubblicazioni dell’ultimo periodo, ma ne vorrei consigliare due: Le ferite originali, di Eleonora C. Caruso, un’autrice molto brava che ho avuto il piacere di pubblicare sulla mia rivista, Speechless, nel lontano 2014.
La settima funzione del linguaggio, di Laurent Binet, un giallo che prende avvio con la morte di Roland Barthes, “stirato” da un furgone della lavanderia (e, in effetti, Roland Barthes viene davvero investito da un furgoncino davanti al Collège de France). Il romanzo è del 2015, ma è arrivato in Italia grazie alla Nave di Teseo soltanto a marzo.
Difficile, poi, fare una classifica tra le case editrici. Una delle mie preferite è Il Saggiatore, di cui comprerei a occhi chiusi tutto il catalogo. Mi piacciono molto anche Iperborea e Codice, tra le indipendenti.
Nel tuo lavoro leggi molti manoscritti. Cosa cerchi da lettrice in un romanzo? Quali caratteristiche deve avere secondo te un libro per catturare oggi l’attenzione del pubblico?
Da lettrice voglio che un romanzo mi sorprenda. E non parlo di rivelazioni o colpi di scena, ma di una sorpresa e di una meraviglia più generali. Potrebbe essere lo stile di scrittura, l’idea alla base, la struttura narrativa, un personaggio e così via.
Per quanto riguarda il pubblico, non lo so. Se guardiamo le classifiche, sembra lecito dedurre che le letture semplici (e di un certo genere) siano le più apprezzate, ma talvolta anche libri più difficili e letterari riescono a raggiungere un buon numero di lettori. Io stessa apprezzo la narrativa commerciale — quella ben pensata e realizzata, però — e credo che il problema non sia l’esistenza in sé di romanzi anche brutti e scritti male, o che le Cinquanta sfumature vendano e la pseudo-avanguardia letteraria italiana no, ma le proporzioni.
È una questione di equilibrio: ora gli editori non pensano più di pubblicare testi commerciali per finanziare altri che apprezzano dal punto di vista letterario e/o culturale, com’era consuetudine “una volta”.
Giulio Einaudi, per dire, sosteneva questo: “Ogni anno a mio avviso la casa Einaudi deve pubblicare un numero, sia pur minimo, di libri su cui è sicura di perdere: mettiamo cinque libri su cento, di alto valore culturale e scientifico, che gettano un alone di prestigio su tutta la produzione… Si perderanno alcuni milioni per ognuno dei cinque libri, ma quale prestigio, quale consenso da parte degli studiosi che gareggeranno a dare a Einaudi i loro libri, i loro testi”.
Nel 2018, invece, gli editori vivono una costante corsa al bestseller (talvolta col rischio di snaturare la linea editoriale della casa, come già successo), ma la maggior parte di queste pubblicazioni vendono pochissimo comunque. Spesso nemmeno 500 / 1000 copie. Quindi, cosa si è guadagnato?
Tra le tue attività anche quella di digital strategist. In cosa consiste?
In realtà, è molto semplice: aiuto gli scrittori, soprattutto ma non solo, a usare meglio gli strumenti e le risorse che la rete offre. Spesso è difficile organizzare le proprie attività online, tra sito, blog, eventi, social network, newsletter e così via, e io faccio proprio questo: organizzo all’interno di una strategia tutte queste cose, affinché non si accavallino e siano coerenti tra loro (e fatte bene, ovviamente). In questo modo, gli autori prendono più consapevolezza del mezzo e hanno più tempo da dedicare alla stesura di buoni contenuti.
Cos’è The Sign of Two? Come mai il riferimento a Sherlock Holmes?
The Sign of the Two è un progetto di branding e marketing per l’editoria, che presto (un presto molto relativo, visto che mi riguarda) si trasformerà in un’agenzia a tutti gli effetti. Forse l’anno prossimo, quando ci occuperemo del nostro re-brand.
L’idea è nata nel 2014, mentre io e Chiara Chinellato stavamo lavorando alla prima versione del mio sito web in fumosi bar di Padova. Dato che la mia attività di editor era già strettamente legata alla figura di Sherlock Holmes (a dire il vero, io ero Sherlock, il mio blog / studio era “Uno studio in blu”, com’è anche oggi), abbiamo pensato di espandere l’universo e usare anche gli altri personaggi. E dove c’è Sherlock, non può mancare Watson, cioè Chiara. E il nome stesso del progetto viene da “Il segno dei quattro”, il secondo romanzo di Arthur Conan Doyle, dopo “Uno studio in rosso”.
Che consiglio daresti ai nuovi scrittori che desiderano essere letti e a coloro che sono in cerca di pubblicazione?
Prendo a prestito le parole di Italo Calvino, da una lettera a Marcello Venturi: “Quindi non farti prendere dalla fregola di pubblicare; quando hai pubblicato che te ne è venuto? Ti riduci a essere un povero disgraziato come me che o deve ricominciare da capo, o deve piantar lì di scrivere; aspetta dieci, quindici anni a pubblicare, ma intanto fai letture ordinate, studia un po’ bene, capisci un po’ bene cosa vuoi fare. E non riattaccare con questo romanzo che ormai, è inutile che ce la racconti, non lo puoi più soffrire nemmeno tu. Dacci dentro che io ti aspetto sempre al varco e spero di leggere presto di te qualcosa di bellissimo”.
Insomma, che bisogno c’è di affrettarsi a pubblicare, se non si è pronti? Meglio pensare a scrivere qualcosa di bellissimo.