Facendo il verso ad un pezzo sacro della storia della musica rock in Italia, ovvero “La mia banda suona il rock”, la cui versione migliore è certamente quella cantata da Ivano Fossati, il regista Fausto Brizzi approda al cinema il 20 Febbraio 2020 con una commedia dal titolo “La mia banda suona il pop”. E fin qui già s’annusa profumo di parodia, ironizzando su un titolo di tutto rispetto per mettere alla berlina una certa musicarella italiana leggera e popolare degli anni Ottanta, con chiaro, anche se implicito, riferimento ad un gruppo come i Ricchi e Poveri, nominati comunque una volta, difatti, nel corso della pellicola, anche se in senso positivo, sottomettendo loro in modo dispregiativo la musica della mitica e fantasiosa band protagonista del film, i Popcorn.
Nonostante un Diego Abatantuono tutto d’un pezzo, “magno” ormai di corpo e di fatto, ponga un simile confronto, per certi atteggiamenti, melodie e banalità testuali i Popcorn sono lo strumento più evidente per inscenare una velata parodia che scherza barzellettisticamente sui Ricchi e Poveri, accomunandosi a questi ultimi sia per il successo riscontrato negli “opachi anni” del XX secolo, sia per popolarità via via andatasi affievolendo, sia ancora perché, come per certe band italiane di quel tempo o per il duo Albano e Romina (peraltro giustamente nominati anche loro), oggi ancora piacciono in Russia. E di qui l’idea di organizzare una classica réunion di un gruppo ormai scioltosi, come tante realtà musicali odierne, con tutte le dovute conseguenze comiche e le loro trasformazioni. Efficace e divertente nei minuti iniziali della pellicola, che va subito dritta al punto senza troppe premesse e con rapidità, la cosiddetta “sequenza metamorfica”, che fa ridere per il solo passaggio a ritmo di musicarella stupidotta dal “com’erano” al “come sono oggi” i membri del gruppo: ne derivano simpatiche maschere, ad eccezione della meno riuscita di tutte, un Paolo Rossi più volte inguardabile (e non solo per il suo viso).
Inespressivo e come in preda ad una paresi facciale, è l’unico che non sappia stare al passo dell’allegra brigata, composta, oltre che da lui, da Christian De Sica, Massimo Ghini ed Angela Finocchiaro.
Tuttavia, se le loro maschere sono ben riuscite, ciò non comporta chissà quale sforzo da parte degli interpreti o della regia, considerando che sfruttano i loro personaggi migliori da sempre, ad eccezione, forse, di una Finocchiaro nelle vesti innovative di una donnina dai facili costumi che è pure alcolizzata.
Ma la sua simpatica caricatura è circoscritta comunque al suo solito stile, che la rende unica e divertente. Ma non basta: dopo una breve prima parte (breve in termini di discreta qualità), la pellicola s’appiattisce su situazioni scontate, banali equivoci triti e ritriti, trovando la capacità di strappare qualche risata solo in virtù delle maschere bene o male riuscite, anzi, meglio ancora: nel bene e nel male.
A proposito dell’ultimo avverbio c’è da riferirsi ad un De Sica che è, quasi come al solito, il principale responsabile di quel turbine di battutine e battutacce che, se da un lato non stancano mai di far sorridere, dall’altro pongono una seria e dubbiosa questione in atto: è mai possibile accontentarsi di generare risate ormai divenute sempre di più alquanto fini a se stesse? De Sica il simpatico cafoncello che bada a donne e denaro ce l’ha fatto vedere mille volte e lo sa fare, ma per quanto ancora dovremo continuare a subircelo? Questo personaggio dovrebbe essere morto come il sottogenere comico in cui ha preso piede, ossia il cinepanettone. E, forse per logica ma indecente coerenza, Brizzi sfrutta con meschina e fasulla abilità la presenza nella commedia anche di Ghini per ricreare nuovamente scenette stile “Natale a Miami” e “Natale a New York”, per citarne due, in cui, in bilico tra equivoci e doppi sensi, la coppia De Sica-Ghini aveva fatto discutere, ma anche dato il meglio di sé.
Tuttavia, qui rivederli in alcune scenette cinepanettoniane assieme è solo dejàvu e neanche fa poi tanto ridere: operazione nostalgia? Ma anche no.
Però il sempre professionale anche qui Massimo Ghini imparruccato color biondo rimane una delle cose più divertenti di un film che è, tutto sommato, una piccola parodia riuscita e non riuscita, che se forse avesse guardato meno al passato sbagliato, si sarebbe potuta aggiudicare almeno il piccolo contentino di “prima ufficiale parodia di una vecchia band musicale italiana”. E invece, essa resta solo ufficiosa e più abbozzata che sviluppata, contando molto sulla bravura di attori che però è come se avessero imparato una favoletta e la sanno raccontare sempre allo stesso modo. Bene sì, ma non sanno andare oltre. O almeno, non nel solco di una sceneggiatura che ha tra le parole più ripetute la tanto desichiana e detta alla romana: “palle”.
Tuttavia, è quasi esattamente a metà pellicola (abbozzo di simmetria portato avanti anche dal ciclico finale, prima di una sorpresina che è però dal sapore, naturalmente, cinepanettoniano) che la storia cambia inaspettatamente: il colpo di scena prepara la band ad un’ulteriore metamorfosi. Dopo essere invecchiati, ora ai Popcorn è richiesto persino di fare un colpo, trasformandosi così da band musicale in band criminale in un colpo solo, per fare un simpatico gioco di parole.
La parodia da musicale, per coerenza, muta in presa in giro di certe pellicole americane d’avventura, ma la sceneggiatura di basso livello e dai dialoghi spesso prevedibili non supporta più di tanto l’azione. Che va avanti, sia chiaro, coinvolgendo lo spettatore ma soltanto illudendolo, perché tanto poi si sa che il colpo andrà a buon fine al posto del concerto in onore del compleanno di un oligarca russo (simpatico e bravo Rinat Khismatouline, come del resto la Stefanenko, anche se, quest’ultima, con un ruolo dejàvu già cucitole addosso in “Ex – amici come prima”, relativamente però soltanto alla durezza e determinatezza caratteriale di donna russa, e quindi forte per cliché).
Sebbene fosse intuibile che, in conclusione, i Popcorn (un nome che è tutto un programma ironico-popolar ma anche commerciale) avessero pure cantato dopo il colpo, evidentemente lo spettatore non si sarebbe mai aspettato che venissero interrotti, pur interpretando bene la canzoncina allegra ed orecchiabile e sfoggiando vivaci e bei costumi iconici sfavillanti anni ‘80 (per fortuna ci sono questi ed altri riferimenti rimandanti a quel decennio, ma son troppo pochi per parlare di parodia ben riuscita, anche se l’idea resta buona).
Forse l’unica amarezza (a parte la scena in cui De Sica e Ghini stanno nella merda in tutti i sensi, una mezza e brutta copia di un’altrettanto indegna scenetta da “Natale a Beverly Hills” che li vede coinvolti) s’avverte proprio in quell’istante: non è forse lo specchio di una realtà italiana contemporanea che rifiuta una certa sottocultura di disimpegno civile, ma comunque di impegno musicale, che appartenente al passato, in passato era apprezzata da noi, ma oggi la lodano più in Russia?
È anche un po’ quel che è accaduto a due icone della nostra musica come Albano e Romina, che non a caso sono tirati in ballo almeno una volta.
Di questo filmetto resta da segnalare un’ultima cosa, un altro piccolo legame con la realtà: quella televisiva.
Il leader del gruppo, Christian De Sica, in una delle prime scene viene squalificato da un mitico reality show stile “Isola dei Famosi” e dal titolo “Isola delle Meteore” perché ha bestemmiato in collegamento e il conduttore Tiberio Timperi ha udito in collegamento mentre è nello studio.
Questa è una piccola inserzione parodica di fatti realmente accaduti, per sottolineare come in programmucci di questo tipo alla banalità ne faccia seguito una nondimeno ulteriore. E qui torna alla mente, però, un altro cinepanettone nell’istante in cui De Sica deve lanciarsi su una barca dall’elicottero: “Paparazzi”, “modello” questa volta coerente sulla base della messa alla berlina televisiva in quest’ultimo film trattata.
Dunque, si può concludere con la constatazione che l’idea di base di parodizzare (a dire il vero) anche le metamorfosi degenerative di certi gruppi musicali solo un tempo famosi era pure carina ed originale, come certe scene anni Ottanta della band di fantasia che sono presenti, ma la messa in pratica, pur offrendo uno o due spunti e due o tre risatine che non mancano mai, risulta essere superficiale, facile e piuttosto deludente, soprattutto se messa in relazione con le premesse, che non erano poi così tanto malvagie.
E le maschere restano, anche se bene o male, anzi, nel bene e nel male, già le sapevamo!
P.S- Brizzi non si stanca di riciclare persino dai suoi stessi lavori, perché De Sica calca qui anche un po’ il suo stesso personaggio del cafone volgarotto estrapolato dalle brizziane commedie “Poveri ma ricchi” e “Poveri ma ricchissimi”.
Valutazione: Buono