Baran Bo Odar e Jantje Friese: ci sembra doveroso iniziare questa recensione-analisi di Dark, comprensiva di tutte e tre le stagioni, senza compromettenti spoiler (ve lo promettiamo), citando i nomi dei due ideatori, registi e sceneggiatori che hanno permesso la realizzazione di tale serie tv Netflix ,
Un duo filmico, ma non solo, dato che sono una coppia nella vita vera, che ha costruito qualcosa di davvero grande e ambizioso, con una razionalità, una lucidità ed un’attenzione per i dettagli davvero ammirevole, attraverso un’analisi psicologica corale e individuale dei personaggi che raramente si vede sullo schermo.
Dark ha un rispetto quasi “religioso” per i suoi protagonisti (molti di loro hanno nomi biblici), nessuno è trascurato o “buttato al vento” e questa attenzione è senza dubbio permeante e geniale, come lo è l’idea di unire la tematica del viaggio nel tempo a dinamiche relazionali, familiari; ad impulsi d’amore e di odio; a faide tra famiglie; ai cambiamenti emotivi e psicologici che possono scavare nel profondo, fino a mutare la natura stessa e il carattere di un individuo; al potere del desiderio, dell’attrazione fisica, mentale, dell’amore dirompente; alla potenza distruttiva del rimpianto, ma anche a quella salvifica dei bei ricordi; alla propensione verso il male; infine, al confine labile e sempre messo in discussione tra oscurità e luce.
Questo aspetto è reso talmente bene che spesso lo spettatore si ricrederà sui personaggi che ha imparato ad amare o ad odiare, mettendo inevitabilmente in discussione anche se stesso. Sebbene abbia una base fantascientifica solida nei contenuti, ciò che Dark racconta è infine l’umanità con tutti i suoi difetti, le sue labirintiche contraddizioni, la sua immensa capacità di realizzare l’irrealizzabile (il viaggio nello spazio tempo), ma anche la facilità con cui essa è in grado distruggere, sperperare, stravolgere ciò che di prezioso ha tra le mani, con l’idea, non sempre vera, che il sacrificio di qualcosa che ci è caro possa portare alla nascita di qualcos’altro di più importante.
Nel momento in cui analizza da vicino lo stupore, la sofferenza, l’impotenza dei personaggi dinnanzi ai paradossi spaziotemporali di cui essi sono al contempo fautori e vittime, in un contesto in cui gli esseri umani hanno imparato a viaggiare nel tempo, descrivendo questo loop infinito e diabolico, Dark ci dà uno scorcio delle infinite possibilità umane, attraverso una fotografia cupa, che gioca molto sulla specularità, sulla sovrapposizione, talvolta sulla sovversione dei piani e delle immagini.
Come si può evincere da quanto detto, Dark è senza dubbio un’opera autoriale, densa e stratificata, per questo non semplice da recensire, indubbiamente un’evento importante per il mondo delle serie tv; complessa, profonda, articolata al punto da dialogare cinematograficamente con se stessa, con grandi intuizioni visive, sceniche, sonore e un senso del ritmo filmico e narrativo elevatissimo.
Possiamo assicurarvi che se deciderete di intraprendere questo percorso visivo, sensoriale, emozionale, “respirerete” suspense ad ogni episodio, non una tensione usuale, ma un senso di angoscia, misto a curiosità irrefrenabile, perché, come i protagonisti, cercherete di comprendere la trama di un disegno imperscrutabile che sembra muovere ognuno di essi, in una vera e propria partita a scacchi con l’ignoto, senza che sia possibile capire chi sappia davvero la verità su come tutto sia iniziato, assieme ad interrogativi ancora più radicali, tanto che verrà da chiedersi cosa sia davvero iniziato, quale possa essere il nodo finale da sciogliere, se ne esiste uno. Una escalation di dubbi che si moltiplicheranno assieme ai viaggi nello spaziotempo eseguiti a più riprese dai protagonisti.
Non si tratta assolutamente di un horror, ci teniamo a precisarlo, ma di un mystery fantascientifico, con componenti drammatiche forti, nonché certamente di un lungo film puzzle, in cui lo spettatore svolge un ruolo estremamente attivo, adrenalinico, mentale, ma anche sensoriale.
L’intensità della serie è notevole, il racconto spiazzante, ipnotico, magnetico, attrattivo e violento quanto potrebbe esserlo un buco nero nel cosmo (la similitudine non è casuale ed è richiamata anche dal titolo) totalmente immersivo, merito anche dell’imponente montaggio sonoro, di una recitazione sublime dell’intero cast, della grande attenzione allo sguardo dei personaggi, prima ancora che dei loro gesti, sguardo che viene seguito dalla macchina da presa, utilizzando talvolta soggettive potenti (alcuni insegnamenti di Hitchcock, grande maestro del thriller) e non viene mai perso di vista, ma seguito costantemente, soprattutto quando i personaggi dialogano tra loro e cercano risposte. L’utilizzo di pause, silenzi, domande cui vengono date risposte ermetiche contribuiscono ad alimentare un braciere sempre ardente di curiosità e desiderio di conoscenza dei meccanismi che alimentano le dimensioni spazio-temporali di Dark.
Lo spettatore si ritrova così proiettato all’interno di un reticolo, all’interno delle rete del tempo, viene sfidato continuamente e in modo sagace e dirompente a mettere tutti i pezzi al loro posto. Possiamo assicurarvi, al computo della terza serie, che la soluzione esiste e, a dispetto delle macchinazioni prospettate, è molto più lineare di quanto possa sembrare all’inizio, il che non banalizza Dark, anzi, ne rafforza l’intelligenza e la solidità narrativa.
Se Lost si perde spesso in lungaggini confusionarie volte ad allungare il brodo, Dark non commette mai questo errore. Tutto ciò che vediamo ha una funzione filmica: sia essa emotiva, di connessione narrativa, di chiarimento rispetto ai futuri sviluppi, o anche di voluto sviamento da rivelazioni principali. Questo significa che non tutto ciò che vedrete è necessario annotarlo sul “taccuino” dei collegamenti familiari, temporali, o delle relazioni causa effetto, che saranno spesso stravolte; ma complessivamente forgerà il racconto e la vostra immedesimazione in esso, come se anche lo spettatore fosse uno dei protagonisti smarriti del film.
Da queste premesse è chiara la nostra opinione in merito: siamo dinnanzi ad una serie tv in cui il genio è tangibile e diffuso in tutta la sua durata (tre stagioni, l’ultima uscita a giugno su Netflix), palpabile come l’oscurità che viene raccontata nel corso della narrazione: l’oscurità di entità metafisiche che superano l’uomo, ma, soprattutto, l’oscurità che può celarsi dietro le pulsioni umane, quella che giace dentro i desideri irrealizzati, tra le trame fondamentali del libero arbitrio di ciascuno, lungo i binari inesplorati e ombrosi delle proprie scelte individuali.
Altro tema mirabilmente trattato nella narrazione è proprio quello della scelta, necessariamente connesso a quello del viaggio nel tempo. Si può cambiare ciò che è stato? E se lo si fa quali saranno le conseguenze? Saranno davvero reali, oppure non smuoveranno minimamente il futuro? Ciò che pensiamo sia importante cambiare, lo è davvero, oppure il cambiamento potrebbe essere una forzatura ancora più malvagia?
Tematiche carissime alla fantascienza Classica, di cui Dark è intessuto, non tanto per le ambientazioni quanto per la sostanza dei contenuti. Durante la visione lo spettatore non troverà abbondanza di effetti speciali, nè ambientazioni spaziali, né tecnologie particolarmente enfatizzate dalla regia. Dark punta su ciò che il viaggio nello spaziotempo rappresenta per i personaggi, piuttosto che a descrivere come esso avvenga realmente al livello scientifico.
Un affascinante ritorno alle origini del capolavoro di Wells, La Macchina del Tempo (1895), in cui lo scrittore, uno dei padri della Fantascienza, racconta ciò che un viaggiatore nel tempo ha visto nel futuro. Il protagonista aveva creato la macchina del tempo nella proprio laboratorio, immergendosi in una ricerca solitaria in un luogo isolato, come le Grotte di Vindem, la cittadina in cui è ambientato Dark, o il seminterrato, o lo studio di un orologiaio o i ruderi di una centrale abbandonata, tutti i luoghi e in cui nella serie avviene il viaggio nello spazio tempo. Non macchine esorbitanti, non folle di scienziati che attorniano i viaggiatori del tempo, ma congegni fascinosi, non sempre completi, per la cui costruzione è necessario sacrificare molto, troppo (ritorna sempre con prepotenza il tema dell’ambiguità del sacrificio).
Tra i rimandi, a parere di chi scrive spicca poi, La Fine dell’Eternità di Asimov, un accattivante romanzo di un altro grande della fantascienza (lo scienziato protagonista di Dark, tra l’altro gli somiglia), in cui degli agenti temporali detti Eterni viaggiano avanti e indietro nel tempo per preservare la realtà del futuro così com’è, modificando spesso particolari che potrebbero sembrare insignificanti, ma che in realtà hanno portata abnorme. Si può dire che Dark spinge al massimo questa idea, amplificandola magistralmente.
Tra i rimandi cinematografici evidente e palese il riferimento a Matrix (dal gatto dejavu a citazioni anche più esplicite) dei fratelli Wachowski. Non mancano analogie con Cloud Atlas (2012), sempre degli stessi registi: ad esempio l’attenzione per oggetti e dettagli che si ripetono come delle costanti nelle diverse linee temporali raccontate.
Anche l’alternanza temporale ricorda questo film, sebbene, lo stile registico faccia pensare più a Mr Nobody di Jaco Van Dormael, in cui si può davvero parlare di memoria pluritemporale e pluridimensionale. Del resto tale film è ispirato alle teorie quantistiche, citate anche in Dark, per le quali le dimensioni convivono contemporaneamente non solo al livello quantico.
Come nel film di Van Dormeal il tempo viene rappresentato come se fossero sempre sovrapposto in tutte le sue “componenti”, tanto che passato, presente e futuro “avvengono” contemporaneamente e senza interruzione (“La fine è l’inizio e l’inizio è la fine”), non solo al livello quantico ma anche nella dimensione macroscopica. Se il film di Van Dormael è più visionario, quasi proustiano del collegare la memoria alle molteplici dimensioni e linee temporali raccontate, (parte infatti dai ricordi del Mr Nobody del titolo), Dark offre invece una razionalità, un rigore psicologico nel descrivere il variopinto mondo delle sensazioni umane, tali da incidere emotivamente sullo spettatore con racconti e personaggi difficili da dimenticare, merito anche di un casting incredibilmente ben riuscito e di una recitazione di altissimo livello.
Concludiamo questa analisi con un’invito ulteriore ad addentrarsi nell’accattivante mondo di Dark e col contraddire una delle frasi spesso ripetute nel film: se i personaggi si augurano spesso con toni malinconici (con tanto di brindisi) augurandosi reciprocamente “Un mondo senza Vindem”; noi ci dissociamo dal nefasto brindisi, perché se idue autori Baran Bo Odar e Jantje Friese non avessero immaginato Vindem (l’unità di luogo è una delle tante brillanti intuizioni registiche), nessuno di noi spettatori avrebbe potuto assaporare le affascinanti tenebre fantascientifiche di Dark. “Tic tac tic tac” è tempo di recuperare questa serie epocale per chi non ne avesse ancora provato il grande potere di assuefazione. “L’inizio è la fine e la fine è l’inizio”.