Giocare a fare i genitori per capirne i reali problemi e doveri

Di Sebastiano Mura per Social Up!

Potrebbe sembrare quasi un gioco, e per molte ragazze, anche da noi in Italia, il fare “da mamma” ad un piccolo bambolotto o pupazzo, negli anni dell’infanzia, rappresenta uno dei primi esempi di avvicinamento e di empatia con quelli che sono i doveri e le preoccupazioni della propria, di mamma. E ci sarà capitato sicuramente di notarlo in qualche episodio di qualche serie TV dedicata ai ragazzi e magari ambientata in una scuola: c’era sempre una puntata in cui i professori affidavano ai protagonisti il compito di prendersi cura di un bambolotto dalle fattezze da neonato, e che dovevano trattarlo in tutto e per tutto come se si trattasse del proprio figlio.

Quello che guardando la TV sembra solo l’ennesimo espediente per montare su una puntata avvincente o divertente (capita spesso che i giovanissimi protagonisti non si dimostrino proprio all’altezza del compito affidato loro, e raramente il “piccolo” del quale avrebbero dovuto prendersi cura, fa ritorno in classe nelle migliori condizioni), ma nella realtà, questo espediente, ha un preciso valore educativo volto a minimazzare le problematiche di una questione seria e di difficile gestione come la maternità  (e la paternità) adolescenziale.

Per questo, in numerosi paesi tra cui l’America (nella quale tre madri su dieci sono adolescenti) vengono portate avanti ormai da anni diverse politiche di prevenzione di questo fenomeno che a sua volta, spesso, ha portato ad un sensibile incremento dei casi di interruzione volontaria delle gravidanze, causando diversi problemi economici e sanitari e sollevato questioni di natura etica e morale. L’argomento è difficile e, così come per molti altri aspetti della vita, che spesso, nel nostro sistema educativo rimangono esclusi, in America sono invece parte integrante del processo formativo dei ragazzi: lo scopo, insegnare loro che cosa comporta realmente avere un bambino, i repentini cambiamenti riguardanti il proprio tempo, le proprie priorità, il proprio corpo, lo scorrere delle giornate e la loro organizzazione. Una volta avuto un figlio, il proprio mondo deve essere rimodellato sulla base di quelle che sono le esigenze del nascituro.

Per dare una piena comprensione del fenomeno, in numerosi stati si è optato da anni per la creazione di corsi che tentano di mettere alla prova i ragazzi attraverso un allenamento “sul campo”. Da oltre vent’anni negli Stati Uniti ad esempio, aziende come la RealityWorks, si prefiggono di utilizzare la tecnologia e la realtà aumentata e l’interattività tra queste e l’essere umano, per aiutare a migliorare il suo status fisico, emozionale e le sue interazioni sociali. Una serie di programmi atti a far sperimentare alle persone gli aspetti più differenti delle possibili realtà che potrebbero capitare nelle loro vite: da un possibile infortunio a, come stiamo per vedere, una gravidanza e tutto ciò che può ruotare attorno ad essa.

I destinatari “preferiti” di questa tipologia di politiche sono, come abbiamo visto, i ragazzi, gli adolescenti, ovvero coloro che, almeno sulla carta, non disporrebbero di tutta una serie di esperienze pregresse che permetterebbero loro di gestire fenomeni come la maternità e la paternità in maniera serena e consapevole.

Il RealCare Pregnancy Profile Simulation, ad esempio, è una sorta di panciotto consigliato sia per ragazze che per ragazzi, il quale scopo è quello di permettere alla persona di “sentire” una serie di modificazioni fisiche e sensoriali solitamente legate alla maternità. Il dispositivo è composto da una sacca d’acqua che dovrebbe servire a replicare i movimenti fetali ed il calore del pancione, una cintura che dovrebbe invece fornire un esempio di come i muscoli, le ossa e gli organi possano essere sottoposti a forze di diversa natura e ad una diversa pressione spesso causa di tutti quei “dolorini” che tutte le future mamme sentono nei mesi di gravidanza, una ulteriore sacca che spinge nella zona della vescica per simulare la pressione che il pancione esercita su quella particolare zona e, a completare il tutto, una serie di pesi aggiuntivi con i quali emulare i chili che solitamente vengono presi durante il periodo di gestazione.

Se per le ragazze questo può essere un modo per avere “un’anteprima” di alcune delle modificazioni che il loro corpo subirà durante i mesi di gravidanza, per i ragazzi o per gli uomini potrebbe essere una vera e propria scoperta per rendersi conto, ovviamente in minima parte, di quale lavoro spetti alla donna, in termini di impegno e fatica, portare avanti una gravidanza. Lo scopo è quello di permettere un’empatia maggiore tra la sfera femminile e quella maschile attraverso una condivisione di alcune delle sensazioni che per natura sono invece riservate solo al sesso femminile.

Molto più diffuso è invece l’utilizzo del Virtual Infant Parenting, ovvero l’affidamento ai ragazzi di bambole che riproducono i movimenti, le esigenze ed i bisogni dei bambini. Lo scopo: far provare loro cosa significa prendersi cura di un nuovo nato in tutte le sfere che possano riguardare la sua salute e il suo benessere, l’alimentazione e l’igiene. L’utilizzo di queste particolari bambole è ormai molto diffuso in numerosi stati d’America anche se ad oggi, non tutti si trovano d’accordo sull’effettiva validità di questo tipo particolare di educazione sessuale.

Risultati sconfortanti in tal senso, sono arrivati nelle scorse settimane dalla lontana Australia, nella quale, come in America, già da anni questa tipologia di interventi è entrata a far parte dei programmi governativi di educazione sessuale nelle scuole.

Ciò che è emerso riguarda uno studio effettuato, tra il 2003 ed il 2006 (pubblicato da The Lancet), su 57 scuole della zona est del continente per un totale di 2,834 ragazze in età tra i 13 e i 15 anni. Queste sono state divise in due gruppi: al primo, di 1267 ragazze, è stata offerta la possibilità di effettuare un corso di educazione sessuale che comprendesse l’utilizzo di queste particolari bambole delle quali le ragazze avrebbero dovuto prendersi cura per alcuni weekend durante i mesi di studio, alle altre invece è stato sottoposto un corso di educazione sessuale di tipo “classico”. Seguite poi fino all’età di 20 anni, lo studio dei successivi sviluppi delle vite di queste ragazze avrebbe dovuto dimostrare l’utilità di questo tipo di politiche e quindi un successivo aumento del loro utilizzo in istituzioni e scuole. Ma i risultati sono stati opposti a quelli sperati. Il 17% delle ragazze del primo gruppo (quello che comprendeva l’utilizzo delle bambole) è infatti rimasta incinta durante l’adolescenza, contro l’11% dell’altro gruppo. In totale il 13% delle ragazze si è ritrovata a portare avanti una gravidanza prima di aver compiuto i 20 anni. I risultati sono successivamente arrivati oltreoceano, mettendo in dubbio l’utilità di questo tipo di programmi, anche se alla luce dei fatti va evidenziato come ogni stato decida di modificare la struttura di questi corsi a seconda delle sue particolari credenze ed esigenze. Se in Australia il corso è stato rivolto esclusivamente alle ragazze, in America, ma anche in Gran Bretagna, lo stesso tipo di corsi viene rivolto sia a ragazzi che ragazze. Risulta quindi impossibile sapere se, nel caso fossero stati compresi anche i ragazzi, i risultati sarebbero potuti essere differenti.

Ciò che resta evidente è la difficoltà di far comprendere in maniera completa, quali rischi e quali implicazioni potrebbe comportare una gravidanza inaspettata soprattutto in quel periodo della propria vita nel quale si è fortemente condizionati nelle proprie scelte dal non conoscere ancora, non solo il mondo nel quale viviamo, ma neanche noi stessi, e la preoccupazione per un fenomeno che sembra accrescersi sempre maggiormente e per il quale ancora quindi, nonostante i numerosi tentativi, non sembra essere arrivato il punto di svolta da molti atteso.