Burt Lancaster, attore per caso e divo per sempre

New York 1941. Un largo sorriso a sventaglio, sfrontato e deciso, illuminava la faccia da simpatica canaglia di quel giovane commesso, alto, bello, biondo con gli occhi cerulei che si muoveva leggero con la levità di un acrobata tra gli scaffali del reparto di biancheria intima femminile del grande magazzino dove lavorava. Sembrava un prestigiatore per come apparivano e scomparivano tra le sue grandi mani, intriganti mise rifinite da pregiati merletti e delicate trine di stoffe particolari, che poi, un fruscio dopo l’altro, sostituiva con sete abbaglianti, morbidi rasi e lini ricercati: tutti capi di abbigliamento che accarezzati lievemente venivano mostrati alle garrule e compiaciute clienti affascinate dal suo fisico imponente, ideale specchietto per le allodole. Roba da ragazzi per fare cassa, messe in scena da quell’uomo che assieme al disinvolto ballerino in spettacoli di vaudeville e al cestista dai grandi mezzi atletici vincitore di una borsa di studio per meriti sportivi, svolgeva tra le tante attività.

Burton Stephen Lancaster s’improvvisò un altro per sopravvivere dopo che un infortunio al polso troncò la sua professione di acrobata che per passione assieme all’amico d’infanzia Nick Cravet, lo aveva portato a esibirsi come trapezista al Kay Brother Circus. Sarà anche operaio in una fabbrica di refrigerazione, addetto alla biglietteria nei concerti organizzati dalla CBS, prima di arruolarsi volontario durante la seconda guerra mondiale con destinazione servizi speciali. Alla fine del conflitto ritornò in patria e proprio quell’anno avvenne il suo Sliding Doors: un giorno in ascensore un agente teatrale incuriosito dalla sua magnifica figura e scambiandolo per un attore professionista gli propose una parte importante per un lavoro a Broadway. Così il destino di quell’uomo, nato nel 1913 a Harlem quartiere povero della metropoli americana, cambiò radicalmente per dare vita alla significativa carriera cinematografica di un grande attore durata più di quaranta anni e lunga circa novanta film. 

Hollywood 1946: cominciava un periodo di prosperità senza precedenti per la settima arte, prima del funesto avvento di una scatola magica chiamata televisione e della caccia alle streghe scatenata da certi invasati della Commissione per le attività antiamericane. A quel tempo era quasi automatico per qualsiasi giovanotto di belle speranze che volesse fare l’attore portarsi appresso un back ground di mestieri assortiti tra i più disparati che alcune volte contati, superavano le dita delle due mani e alla fine irrobustivano significativamente i ruoli da interpretare.

Diventato soltanto Burt Lancaster, fin dal suo debutto cinematografico incominciò a distillare questi personaggi riversando sullo schermo una forte presenza scenica evidenziata dalla sua fisicità che si espandeva corroborata da un’intensità recitativa, figlia di una voglia di perfezionismo che lo accompagnò per sempre.

Nel suo primo ruolo da protagonista nel film: “I Gangsters”,assieme alla conturbante anch’essa debuttante Ava Gardner, si propone perfetto e misurato nella fatalità incombente di una storia tragica. Si ripete l’anno dopo in: Forza bruta”, nei panni di un carcerato che organizza un’evasione. Continua col filone noir interpretando assieme all’amico Kirk Douglas, gireranno insieme ben sette film, ”La via della città”, riscuotendo però un tiepido consenso di pubblico. E siccome è avveduto e intelligente, si libera ben presto degli strettissimi lacci che le majors cinematografiche imponevano e diviene produttore indipendente, cosicché quando il genere poliziesco comincia a calare nelle preferenze degli spettatori si tuffa nel filone dell’avventura e del western. Dapprima rivisitando in maniera più ironica e brillante i personaggi di Errol Flynn, di cui in gioventù era accanito ammiratore, con: ”La leggenda dell’arciere di fuoco” e memore dei suoi trascorsi funambolici si diverte a girare con l’indimenticato amico Nick Cravet: ”Il corsaro dell’isola verde”. Poi nel ruolo del fiero pellerossa de ”L’ultimo Apache”, anticipa il tema dei diritti dei pellerossa per poi spadroneggiare venale e farabutto nel confronto con l’onesto Gary Cooper in “Vera Cruz”. Intramezzata a questi due generi nel 1953, rifulge la magistrale interpretazione del sergente Warden in: ”Da qui all’eternità” dove oltre la bravura di competere con un cast di tutto rispetto costituito da Montgomery Clift,   Frank Sinatra (premio Oscar) e Deborah Kerr, con quest’ultima gira una delle scene più ardite della storia del cinema: il peccaminoso bacio tra i due amanti sul bagnasciuga della spiaggia.

Più passa il tempo e più Burt Lancaster affina le sue indubbie capacità interpretative che si adeguano perfettamente nel film: ”La rosa tatuata” alla superba perfomance di Anna Magnani premio Oscar 1956. A suo agio sul set di “Trapezio”, metafora del suo passato nel circo, si supera impersonando uno sgangherato imbonitore capace però di far sognare la sfiorita zitella Katharine Hepburn in “Il mago della pioggia”. Rhttps://www.socialup.it/wp-admin/admin.php?page=revslider_global_settingsitrova nel 1957 nei panni dell’inesorabile sceriffo Wyatt Earp, il compare Kirk Douglas che caratterizza da par suo l’incallito giocatore e accanito bevitore, dottor Doc Holliday nel memorabile western ”Sfida all’OK Corral”. Lo stesso anno gira ”Piombo rovente” nel quale spietato e influente giornalista assieme al suo tirapiedi Tony Curtis costruisce uno scandalo per distruggere il fidanzato della sorella con la quale ha un rapporto morboso.

Innamorato come pochi altri del proprio mestiere, arricchisce la propria filmografia di nuovi e interessanti proposte di  generi e personaggi molto diversi tra loro. Si scontra con le paranoie di Clark Gable comandante di un sottomarino, nel bellico ”Mare caldo”; annega nel whisky il desiderio inappagato per l’ex moglie Rita Hayworth in: ”Tavole separate”;  e mette in risalto i rapporti tra diverse etnie al confronto con i bianchi nel western “Gli inesorabili” nel quale emerge la delicatezza interiore di Audrey Hepburn.

Nel 1960 con impeccabile stile disegna le sottili sfaccettature che sullo schermo incarnano il cinico  e arrivista ciarlatano Elmer Gantry che plagia la mistica Jean Simmons ne: “Il figlio di Giuda” e finalmente vince il suo primo ed unico Oscar da attore protagonista.

Da questo momento in poi sembra che la sua interiorità di uomo si rifletta ancora di più nei personaggi interpretati a tutto tondo in tutta la loro intensità. A seguire il drammatico “Il giardino della violenza” e il malinconico ”Vincitori e vinti”, ecco lo stupefacente: ”L’uomo di Alcatraz”, uno spaccato sociale aderente al ritratto umano di un ergastolano sulle possibilità di riscatto e subito dopo l’inquietante, decadente ed enigmatico principe Don Fabrizio di Salina del “Gattopardo”, che cupo e pensoso con le sue posture esprime le preoccupazioni sui cambiamenti in atto nell’Italia Risorgimentale.

Continuò indefesso a sciorinare il suo talento cinematografico anche negli anni settanta riuscendo benissimo quasi sessantenne a sostenere ruoli impegnativi anche fisicamente tipo il mezzosangue messicano di “Io sono Valdez”, lo sceriffo tutto di un pezzo di ”Io sono la legge” e i’ambiguo agente della Cia inseguito dal killer Alain Delon in: ”Scorpio”.

Mette la sua impronta definitiva a sigillo del carisma di un uomo competente, rigoroso e professionista come pochi, nei suoi ultimi film tra cui spiccano ”Novecento”; “Gruppo di una famiglia in un interno” e “Atlantic City”. Siamo nel 1980 e deve giocoforza abbandonarsi in ruoli dove conta più di tutto l’autorevolezza passata: “Hollywood, niente di più di un grande circo”, disse una volta per definire la mecca del cinema. Ebbene ci voleva proprio un tipo come lui colto, sensibile, curioso e affamato di vita, proveniente da un mondo diverso a portare in quell’ambiente la freschezza di situazioni sempre più nuove. Benché attempato, mostrò un minimo d’integrità fisica inaspettata prima di compiere l’ultima acrobazia che nel 1994 lo portò a volteggiare per sempre nell’immortalità del cinema.  

Vincenzo Filippo Bumbica