“Bastardi a cena”: la storia dell’olocausto messa in scena a Catania

“Bastardi a cenaUn’intossicazione teatrale”, liberamente ispirato alla pellicola cinematografica “Bastardi senza gloria” di Quentin Tarantino, può essere definito come lo spettacolo di punta della compagnia catanese del “Teatro degli Specchi”. Il Teatro degli Specchi nasce a Catania nel 1978 per iniziativa di Aldo Lo Castro e di altri operatori teatrali, fra i quali il compianto Pino Bonaccorsi. Si è sempre distinto, in ambito catanese e non solo, per la sperimentazione scenica e l’introduzione di novità tecniche apportate anche al tradizionale repertorio teatrale, spaziando dal classico Shakespeare fino appunto a produzioni originali. Compagnia prevalentemente amatoriale ma nella quale spiccano anche alcuni professionisti, può essere intesa come un laboratorio dove avvengono continue sperimentazioni, ricerche e prove senza aver mai paura di osare.

Cinque anni fa il regista e direttore della compagnia Marco Tringali ha elaborato all’interno del locale, nonché studio di registrazione, Magazzini Sonori (Mags) di Catania un vero e proprio percorso fisico nel quale il pubblico non assume solo il ruolo di tacito spettatore ma diventa parte integrante della performance. La volontà primaria del regista infatti è proprio quella di voler squarciare la famosa “quarta parete” della scena, con lo scopo di far sperimentare allo spettatore, quasi sulla propria pelle, certi momenti delle violente deportazioni del genocidio nazista.

Sarebbe sbagliato però considerare questa pièce esclusivamente come una tragedia sull’Olocausto. Il messaggio da veicolare infatti è una forte denuncia contro le terribili violenze generate da ogni sorta di totalitarismo, in nome invece della più aperta libertà d’espressione. Ma l’aspetto peculiare della rappresentazione è la cangiante atmosfera in cui il pubblico è totalmente avvolto; passando da una metaforica e fisica oppressione in un cosiddetto “luogo-non luogo”, ad un clima irriverente ed eccessivo, fino alla visione finale della tragedia umana. È uno spettacolo multiforme in tutti i sensi, in continua evoluzione anche con il cambiamento del cast e della location. Gli spettatori vengono costantemente interpellati dagli attori, ma il sentimento che alla fine aleggia è quello di una disarmante impotenza, tipico appunto di chi assiste ad un’evento ma non può intervenire per cambiare il corso delle cose.

Entrando nel vivo della rappresentazione lo spettatore incomincia lentamente a prendere coscienza del dramma che sta per vivere indirettamente. Qui inizia l’incubo dei deportati e del pubblico stesso, il quale si augura che tutto finisca presto. Così dovette cominciare ogni totalitarismo: con il fastidio di chi guarda e  la speranza che nel giro di poco tempo l’orrore svanisca come in un brutto sogno. Non mancano però momenti in cui a farla da padrona è la sarcastica denuncia verso il terrore generato dal regime nazista.

Ma non appena ci si abitua all’ironia e al divertimento, il dramma riappare. E con esso l’impossibilità a non potersi muovere costringendo se stessi a pensare che è solo finzione, anche se fatti storici realmente accaduti. E’ questo il tormento che balena in testa per l’intera rappresentazione. Che fare poi, guardare in faccia la crudeltà dell’uomo o girarsi dall’altra parte? La scelta è sicuramente ardua. Il sapore amaro in bocca che rimane alla chiusura delle scene, viene addolcito dall’abbraccio caloroso degli attori, come a far ritornare alla realtà lo spettatore scosso e in molti casi visibilmente commosso.

 

 

Alice Spoto