Con Simulation Theory i Muse hanno trovato la loro (ennesima) dimensione

Il 9 novembre scorso è stato finalmente reso disponibile Simulation Theory, l’ultima fatica targata Muse. C’erano tante aspettative, come anticipato, che sono state confermate.

Simulation theory ha permesso al trio britannico di trovare la loro (ennesima) dimensione: sono riusciti a mettere insieme tutte le loro influenze e i loro temi in questo disco, alternando paranoie alla George Orwell all’ansia futuristica targata anni ’80.

Hanno sempre strizzato l’occhio al futurismo distopico, misto a sci-fi di alta scuola anni ’80 e si sono ritrovati, dal 2016, in un mondo che sta riscoprendo gli anni ’80: saranno forse stati dei precursori?

Simulation Theory è forse il primo album dei Muse che riesce a trasmettere cosa c’è da aspettarsi solo guardando la copertina: il viola, il blu elettrico, uniti a lupi mannari, ideogrammi giapponesi e quello che sembra essere un ghostbuster trasmettono da subito il fascino synth anni ’80.

Personalmente, in primis la copertina, e subito dopo la prima traccia dell’album, Algorithm, mi hanno subito portato alla mente le scene di Scarface con la fantastica colonna sonora curata da Giorgio Moroder.

Sarebbe ipocrita negare che i Muse abbiano subito una mutazione anche in questo lavoro, ma saper cambiare è sintomo di versatilità, non cavalcare le mode. Ma sarebbe altrettanto ipocrita attaccarli sostenendo che ormai si siano limitati a fare solo opere melodrammatiche stile 30 Second To Mars, che per quanto politicamente impegnate, per carità, sono prive di sperimentazioni musicali e lasciano il tempo che trovano.

Se avessero voluto cavalcare delle tendenze, come sostenuto da molti detrattori, o se fossero dei “venduti”, avrebbe fatto di tutto, negli anni, per rimanere costanti, avendo come unico obiettivo quello di accontentare il loro target iniziale.

I Muse, nella loro carriera ultra ventennale, sono riusciti a pubblicare ben 11 album, ognuno diverso dall’altro, ognuno adatto ad uno specifico stato d’animo: Drones non guasta mai quando si è arrabbiato, come The Resistance non fa brutta figura da innamorati, ecc.

La storia insegna che tutti i grandi artisti hanno attraversato periodi diversi durante la loro carriera, vedi Queen o Daft Punk, perché spinti dalla voglia di sperimentare o, per i più maliziosi, di cavalcare le tendenze.

Sperimentando si ha il 50% di possibilità, se non di più, di deludere i fan consolidati, quindi, sotto un certo punto di vista (che non condivido), di fallire. Allo stesso tempo, però, si ha il 50% di possibilità di essere i precursori di qualcosa, di un nuovo movimento, di essere d’ispirazione per futuri artisti che potrebbero essere capaci di sviluppare frontiere sconosciute.

In definitiva, il nuovo disco è letteralmente una bomba, capace di unire tutti i sound che hanno caratterizzato i Muse, creando qualcosa di unico.

Per i detrattori: diciamocelo, se volete qualcosa di piatto, di originale, definibile “Muse autentico”, come sostenete, limitatevi al punk (con tutto il rispetto per i Ramones).

Paride Rossi