L’invenzione dell’anticafè a Mosca è l’ideale per farsi viziare

Sono sempre stata dell’idea che il popolo italiano sia viziato. Estremamente fortunato ed estremamente viziato. Un’ottima disposizione geografica, che assicura un clima mite e benefico sia per la vita che per la coltivazione, una varietà di flora e fauna eccezionale, un ricchissimo patrimonio storico, artistico e culturale, una lingua definita la più musicale al mondo, una cucina invidiabile: sembrano discorsi banali, lo so, eppure non lo sono.

Perché solo vivendo al di fuori del Belpaese ci si accorge di quanto sia bello passare le serate “in villa” su una panchina con gli amici, e di quanto sia più comodo studiare l’arte avendo sotto i propri occhi l’oggetto del proprio studio, e di quanto sia più piacevole passeggiare in mezzo ad edifici romani, medioevali o rinascimentali sotto un sole tiepido, piuttosto che in mezzo a grattacieli grigi e cupi, bagnati da un’altrettanto grigia e cupa pioggia.

È per questo motivo che in Italia la tradizione delle caffetterie non è così diffusa come in altri Paesi, soprattutto quelli del Nord Europa. Nelle città dello Stivale il caffè è qualcosa da bere al volo, al bancone, senza neanche sedersi, giusto per ingurgitare quella quantità di caffeina necessaria ad affrontare una mattinata di duro (?) lavoro, mentre altrove il caffè (o il thè, o il cappuccino, o la cioccolata calda) è un rituale, un pretesto per  incontrarsi con gli amici, scambiare due chiacchiere, ripararsi dall’incessante pioggia/neve che cade insolente fuori dalla finestra, scaldare le mani attorno a una tazza fumante, racimolare quel po’ di energie sparse che son rimaste in corpo, per riuscire poi ad affrontare di nuovo quella città buia, umida, monotona e angosciante. Sono dei piccoli mondi di calore e di vita sparsi sul corpo di un mostro freddo e insensibile, una moda però che si diffonde velocemente anche in Italia, provate a cercare su Sluurpy.

Ed è proprio in una città del genere, dove le caffetterie sono un punto di incontro per persone che abitano, magari, dai lati diametralmente opposti di una capitale mastodontica per le sue dimensioni, che il concetto alla base di questi locali (entrare-ordinare-consumare-andarsene) è stato capovolto: a Mosca, infatti, sono nati gli anti-cafè. Il primo è stato “Ziferblat” (letteralmente, “quadrante di un orologio”).

“Più che un ristorante è un esperimento sociologico,” spiega il giovane proprietario, Ivan Mitin, “questo è un posto dove la gente viene semplicemente a passare il suo tempo. Il tempo è denaro, come diceva Benjamin Franklin”. Infatti, la caratteristica degli anti-cafè è quella di pagare non per le consumazioni, ma per il tempo che ci passi.“Due rubli al minuto la prima ora, un rublo per le seguenti (1 euro = 40 rubli, n.d.A.). A ogni cliente viene dato un orologio, e il suo nome viene scritto su una lavagnetta. Abbiamo delle grandi scorte di caffè, thè, panini e dolci vari, fruibili gratuitamente, ma ognuno può portare da casa quello che vuole.

Unica regola: niente alcool e niente fumo”. L’idea del Ziferblat è stata subito copiata, con successo, da altri locali, e subito la moda si è diffusa anche in altre città: San Pietroburgo, Kazan, Nizhniy Novgorod, Odessa, Kiev. Presi d’assalto da giovani quanto squattrinati artisti, gli anti-cafè si stanno ora trasformando anche in centri culturali; in molti, infatti, si effettuano proiezioni di film, presentazioni di libri, mostre d’arte. L’idea, tuttavia, non è stata ancora copiata in Occidente, e questo insospettisce: che sia un business troppo poco proficuo, troppo democratico, troppo “comunista” per questa Europa smembrata dalla crisi e avida di denaro?

redazione