Leggende, storie e mostri delle Valtellina (e dintorni)

Le gite di fine settimana in montagna sono appuntamenti irrinunciabili che ogni estate cerchiamo di fare a week end alterni.

Nonostante si sia viziati abitanti di grandi città, ogni tanto ci piace rigenerarci in un contesto in cui la modernità – comunque dilagante e invasiva – fatica ancora un po’ a inglobare tutto.

Certo, oramai è difficile trovare delle località di montagna, se si eccettua qualche borgo isolato per mere ragioni geografiche, non invase da torme di aperitivari milanesi in trasferta tattica a bordo di costosissimi SUV. È un peccato vedere che tocca alla gente di montagna adattarsi a questa invasione lanzichenecca, e non viceversa. I cittadini chiedono locali alla moda? Facciamoglieli. Vogliono piste da sci? Eccole, con tutti i comfort del caso.

Ricordiamo che fino a una quindicina di anni fa i montanari erano molto più recalcitranti ad accogliere i forestieri. Probabilmente le vecchie generazioni conservavano quella tipica diffidenza di chi cresce lontano dai deliri della gente di pianura, quindi non vedevano di buon occhio chi tentava di imporre un altro modo di vivere a casa loro. Ora invece si preferisce mungere i ricchi turisti del fine settimana, piuttosto che le mucche.

Meglio quindi ricordare quel senso di mistero e riverenza che i monti ispirano a chi ancora riesce a fermarsi ad ascoltare, tra una suoneria di cellulare e un MP3. Non a caso le valli italiane sono zeppe di leggende e storie popolari che le vedono abitate da streghe, orchi, uomini selvatici, fantasmi e diavoli. Oggi vi parleremo di alcuni miti che riguardano la Valtellina e i suoi dintorni, luoghi che sono spesso meta del mio girovagare estivo.

La bestia del Diavolo

È particolarmente viva, in molti paesi della Valtellina, la leggenda della “cavra bésüla”, chiamata nella versione maschile “caurabésül”. Si tratterebbe di una capra (o di un caprone) che segnala la sua presenza emettendo un verso lamentoso e terrificante.“Bésüi”, in dialetto locale, significa infatti “urla disumane”. Il suono sinistro di qualche animale notturno induceva a immaginare la sua presenza: fatto sta che, come raccontavano un tempo gli anziani ai bambini, addentrarsi di notte in un bosco, soprattutto se si aveva la coscienza sporca per qualche cattiva azione, significava esporsi al rischio di vedersi comparire innanzi questo animale orribile e famelico, presentato, di volta in volta, come manifestazione del Demonio, di qualche strega o di qualche anima dannata particolarmente cattiva.

I dannati che tornano nelle valli

Il Sommo Poeta Dante ci insegna che le pene infernali obbediscono sempre alla regola del contrappasso. Nel suo Inferno immagina i golosi immersi in una fanghiglia fetida. Più mite sorte tocca invece ai golosi della Val di Togno, condannati in eterno a cibarsi della poca erba offerta dai magri pascoli della valle. I vecchi assicurano che, all’ultimo rintocco della mezzanotte, la valle, da Ca’ Brunai, nel suo settore di mezzo, fino all’alpe Painale, dove si chiude, si popola di ombre misteriose che, anche nella fattezza di capre, si avventano fameliche su quei cespugli che non potranno mai spegnere la loro fame. Si tratta delle anime dei golosi, qui confinati e condannati a cibarsi dei miseri cespugli d’erba amara.

Anche Giuseppina Lombardini (cfr. Ezio Pavesi, Valmalenco, Cappelli Editore, 1969) parla di questa leggenda, secondo la quale dopo i rintocchi di mezzanotte della campana della distrutta chiesetta di S. Eusemio a Sondrio, sulla mulattiera che da Ca’ Brunai porta al laghetto di Painale le spettrali ombre dei golosi sondriesi si affollano per divorare avidamente la scarsa erba.

Aurelio Garobbio, in Montagne e valli incantate (Cappelli editore, Rocca S. Casciano, 1963) aggiunge che le anime dei ricchi sondriesi trapassati escono a mezzanotte dalle case Botterini, Sassi, Lavizzari e Sertoli, dal Cimitero, dall’Ospedale e dall’Enologica Valtellinese, e si avviano su per la Valmalenco, aggrappandosi a rupi e arbusti, divorando erbe e vermi, con una voracità mostruosa.

I Mani oscuri

La leggenda dei Mani della omonima regione, la Val di Mani, è ancora più particolare. Questi sarebbero oscuri spiriti – forse derivati dalle medesime divinità minori del pantheon romano – che abitavano i recessi oscuri della valle cui li lega il nome, uscendone però spesso, a danno dei Cristiani, detestati per aver messo al bando i culti pagani, tra cui il loro.

Eccoli allora imperversare su campi e alpeggi: con il loro fetido fiato li rendevano brulli e desolati, prosciugavano le mammelle delle mucche, rendevano difficile perfino alle donne concepire i figli. Il loro alito pestifero diffondeva ovunque morte e desolazione.

Un giorno un sant’uomo dotato di vera fede, Don Sebastiano, riuscì nell’intento di esorcizzarli dalla valle. A quanto pare durante il rituale riuscì a vedere coi suoi stessi occhi una torma di figure oscure, i Mani. Prima di andarsene, banditi dalle preghiere del prete, essi gli promisero che sarebbero tornati. Spaventato, Don Sebastiano disse loro che avrebbero potuto trovar pace nella vicina Val di Togno, e i Mani lo ascoltarono. Peccato che quella promessa fu dettata solo dalla necessità del sacerdote di liberare la sua gente, senza curarsi delle conseguenze. Infatti, arrivati nella valle sull’altro versante del monte, i Mani iniziarono a spargere lì la loro influenza mefitica. Essa si fa sentire ancora oggi, perché si attende un nuovo don Sebastiano che abbia la sufficiente statura di santità per porvi fine.

redazione