Intervista a Marco Bellinazzo: quale sarà l’evoluzione del calcio italiano

Intervista a cura di Paride Rossi e Gianluca Pinna

Il calcio italiano, dopo aver iniziato il nuovo millennio con le vittorie in campo internazionale di Inter, Milan e soprattutto della nazionale italiana nel 2006, ha vissuto un decennio di declino. I motivi sono svariati, ma spiccano la scarsità di risorse finanziarie e la mancanza di programmazione. Per capire qual è l’attuale situazione del calcio italiano, e quali sono le strategie per tornare ad essere competitivi in campo internazionale, Social Up ha avuto il piacere di intervistare Marco Bellinazzo.

Bellinazzo, oltre che essere una delle più prestigiose firme della Gazzetta dello Sport e del Sole 24 ore, vanta una laurea in giurisprudenza e dal 2007 è specializzato in Sport Business.

Da tanti anni ormai si parla della famosa Superlega, spesso senza cognizione di causa. Secondo lei, un progetto del genere quale implicazioni legali comporterebbe? Rispetterebbe le regole delle diverse federazioni europee e soprattutto sarebbe garantito il principio di libera concorrenza? I club ne guadagnerebbero in termini di attrattività?

Sarebbe indubbiamente uno strappo dal punto di vista legale, paragonabile a quello che hanno fatto i club di basket con l’Eurolega ed assistiamo tutt’ora alle ripercussioni con Fiba e federazioni nazionali.

In una vicenda del genere si aprirebbe un grande conflitto tra l’autonomia privata, ossia i club che vorrebbero perseguire le migliori occasioni economiche, e la struttura dello sport mondiale. A tal riguardo, infatti, FIFA e UEFA hanno già messo le mani avanti dichiarando che, qualora si andasse verso una direzione del genere, bloccherebbero tutti quei giocatori impegnati in Superlega, non facendoli partecipare alle proprie competizioni (es. Europei e Mondiali).

 

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Ritengo che nei prossimi anni la Superlega sarà lo specchio per le allodole che i grandi club agiteranno al fine di ottenere un livello di competizione più adatto a squadre di prima fascia, le cui partite possano essere vendute meglio sul mercato internazionale, rispetto a quelle con squadre “minori”, match con un senso dal punto di vista sportivo, ma con un bacino d’utenza “meno interessante”.

I modelli a cui pensano i top club guardano alla crescita nel mercato internazionale, poiché i mercati nazionali sono saturi in termini di sponsorizzazioni e diritti tv. Gli interessi dei grandi investitori potrebbero concentrarsi sui grandi club e su squadre minori, probabilmente in caso di interessi che vanno oltre la sfera calcistica.

Nel nuovo Governo Draghi è venuto a mancare il dicastero dedicato specificatamente allo sport ed anche un possibile sottosegretario, tornando in pratica a non esistere. Questa situazione di stallo ha riportato nelle mani del CONI un maggior potere. Crede che sia la cosa giusta da fare in questo momento storico? Lo sport sarebbe più tranquillo con una guida amica al Governo?

Rispetto alle turbolenze negli ultimi anni, in cui la stratificazione normativa ha creato un “mostro con più teste” nel Governo dello Sport (Ministero, CONI, Dipartimenti Presidenza del Consiglio, ecc.), Draghi ha scelto una soluzione più bilanciata.

Ritengo che però questa sia stata una scelta poco coraggiosa, che dimostra ancora una volta come nel nostro Paese manchi una consapevolezza a livello politico di ciò che lo sport rappresenti in termini industriali, sociali, sanitari e che quindi meriterebbe una maggior considerazione.

Le vicende legate ai club milanesi hanno dimostrato quanto i fondi d’investimento e di private equity siano interessati al mondo del calcio. Un ingresso di questa tipologia di investitori cosa potrebbe comportare per il calcio? Quali potrebbero essere pro e contro di un cambio radicale di investitore rispetto al passato?

Il modello di gestione del calcio è profondamente cambiato negli ultimi anni, così come il giro di affari. È normale, quindi, che attirasse l’attenzione dei grandi fondi, poiché ci sono molte aree che possono essere sviluppate.

I fondi considerano lo sport un settore in grande evoluzione, soprattutto per il connubio tra sport, intrattenimento e comunicazione, e lo hanno dimostrato acquisendo club, quote di federazioni e leghe.

L’aspetto positivo è sicuramente la forte iniezione di liquidità che potrebbe arrivare dai fondi, unita ad una dose di managerialità, di cui lo sport ha senz’altro bisogno. Ovviamente si possono presentare complessità e rischi nel caso di un approccio speculativo dei fondi, poiché non sempre i tempi dei fondi sui ritorni economici da un investimento coincidono con i tempi dell’industria sportiva in senso lato e di conseguenza potrebbe crearsi un conflitto d’interessi.

Tuttavia, i fondi più illuminati dovrebbero approcciarsi al mondo dello sport con una prospettiva diversa da quella che hanno negli altri tipi d’investimenti, risultando un punto d’equilibrio decisivo per rendere redditizie le due operazioni.

Nel novembre 2017 perdevamo lo spareggio di qualificazione al mondiale con la Svezia e Lei scriveva il libro “La fine del calcio italiano”. L’europeo è alle porte e sono emersi giovani che fanno ben sperare (Barella, Chiesa, Bastoni) possiamo quindi essere più ottimisti per il calcio italiano?

La competitività del sistema calcio italiano è in netto calo e nel libro analizzavo le cause per cui il campionato italiano è diventato il quarto campionato europeo. Il rendimento calcistico dei club in Champions e della Nazionale sono lo specchio del depotenziamento che ha molti responsabili ed alcuni sono ancora lì.

Il calcio in quanto sport è in continua evoluzione e negli ultimi tempi, rispetto al passato, ci si è spostati sui giovani rispetto ai tanti stranieri acquistati, anche per un’esigenza finanziaria poiché costano meno, e stanno venendo fuori una serie di giocatori “nuovi” (Verratti, Kean, ecc.) che ci può consentire di vedere le cose diversamente.

Barella e Kean con la maglia della nazionale [lanuovasardegna.it]

Ovviamente bisogna pensare bene che, se qualche talento fiorisce qua e là, non bisogna considerarlo il giusto termometro per valutare lo stato di salute generale del calcio italiano. Noto ancora infatti, una scarsa propensione dei club ad investire su vivai, centri sportivi e sulla formazione di giovani talenti che ci possano riportare ai vertici del calcio mondiale

Oltre al lato economico, cosa manca alle società Italiane per tornare ad essere protagoniste in Europa (es. programmazione, studio, ricerca, R&D, competenze trasversali)? In che modo si potrebbero acquisire tali competenze?

Probabilmente abbiamo perso tecnici capaci di valorizzare il talento, che si sono confermati a certi stereotipi, promuovendo ad esempio l’aspetto fisico dei calciatori a discapito di calciatori di talento senza queste caratteristiche fisiche (es. altezza, peso), limitando lo sviluppo naturale di talenti.

Solo in poche realtà si è deciso di continuare ad investire risorse sui settori giovanili, preferendo questa strada all’acquisto di giocatori all’estero da poi rivendere, che spesso ha depauperato il patrimonio italiano. Se togliamo, infatti, Atalanta, Udinese e alcune piccole realtà di provincia, le scuole che formano giovani calciatori italiani sono davvero poche.

redazione