Vincitore dell’Orso d’oro al Festival internazionale di Berlino, “Fuocoammare” è più di un documentario, inteso nel senso canonico del termine. Nella sua realizzazione (che ha comportato mesi di lavoro), il regista Gianfranco Rosi ha scelto di investire sulle immagini per immortalare con la sua “paziente” macchina da presa scorci intimi di Lampedusa, ed osservare dall’interno il fenomeno dell’ immigrazione. Il regista non indugia sugli elementi più drammatici degli sbarchi, o sulla crudezza delle stragi che si verificano costantemente nel Mediterraneo. Il suo sguardo è delicato e va più in profondità, come se volesse cogliere la radice o l’origine di questa accoglienza che, in un’epoca di barriere e di terrore per il diverso, dovuta all’insicurezza provocata dagli attentati terroristici, Lampedusa offre ai migranti, con una naturalezza che sorprende, una spontaneità semplice che da piccola, fa diventare “grande” quest’isola, agli occhi di un Europa sempre più “tecnica”, ostile e chiusa alle frontiere.
Lo stile registico ricerca la perfezione dell’immagine nell’imprimere sulla pellicola l’isola, il mare, i suoi silenziosi abitanti, i migranti. Incredibile il risultato finale, se si pensa che Rosi gira i suoi film quasi in solitaria, avvalendosi spesso dell’aiuto delle persone del luogo. Ma alla nitida e affascinante fotografia, si aggiunge molto di più, perché le scene non sono fine a se stesse, ma diventano spesso metafora e simbolo di qualcos’altro, prima di tutto, come dicevamo, dell’ empatia che l’isola ha nei confronti dello straniero.
E’ così che il medico del policlinico di Lampedusa rivela alla telecamera la sua incapacità di abituarsi alle morti che ogni giorno è costretto ad affrontare (molte purtroppo di bambini), che scavano nella sua coscienza, fino a diventare incubi notturni. Ciò che stupisce è la sua autenticità, la stessa che mostra, mentre, durante un’ecografia, cerca di spiegare ad una donna in cinta sopravvissuta allo sbarco, il sesso dei gemelli che porta in grembo. La vita e la morte, straordinariamente legate tra loro. E’ la realtà. Non c’è finzione, non ci sono pateticismi. Non c’è il cinico distacco del professionista. Al contrario vi è l’umanità, l’apertura verso un fenomeno talmente vasto, da poter sembrare difficile da comprendere nella sua globalità. Eppure l’isola e i suoi abitanti lo accettano come una verità assodata, che non ha bisogno poi di tante spiegazioni o giustificazioni.
Come la nonna che in una scena del film racconta al nipote di quando il fuoco galleggiava sull’acqua (il “Fuocoammare” del titolo), rievocando la guerra del passato e le navi armate che erano presagio di morte. E’ una guerra diversa da quella da cui scappano i migranti, ma è la stessa se si pensa al loro desiderio di vivere e sopravvivere, che accumuna tutti gli uomini. E come allora Lampedusa diventa un rifugio dalle acque turbolente, da un “mondo in burrasca”. Una casa che accoglie e non rifiuta chi è in cerca di aiuto.
“Il mare non è una strada, ma noi siamo ancora vivi” canta uno dei profughi nigeriani che sono sbarcati sull’isola. Dirige il lamento collettivo dei suoi compatrioti. Ne hanno bisogno per esorcizzare la paura della morte e la felicità di essere sopravvissuti, che si mescolano in un tutt’uno difficile da esprimere a parole. Una scena molto toccante. Un’intuizione straordinaria (non la sola) del regista che con l’attesa, l’osservazione e la perseveranza si trova al posto giusto al momento giusto per raccontare attraverso questa canzone-pianto la storia inenarrabile dei profughi.
Ed è questo il merito più grande della regia: saper coniugare un’estetica molto raffinata ad una sensibilità e una capacità simbolica che fanno del documentario non un semplice resoconto di fatti, ma un mezzo espressivo di straordinaria potenza comunicativa. E lo spirito dell’ “isola pacifista” (nel 2011 è stata anche nominata per ricevere il nobel della pace), che è contraria ai conflitti, è rappresentato anche dal bambino Samuele, che durante i suoi svaghi, per giocare alla guerra prende dei petardi e colpisce i fichi d’india, cui ha fatto degli occhi come se fossero nemici.
Dopo averli colpiti e “feriti”, però, li “aggiusta” rattoppandoli con il nastro adesivo. Lo fa come se fosse un dovere farlo. Con una serietà e un metodo che lasciano divertiti, ma anche colpiti. Come a significare che Lampedusa è un luogo in cui il dolore può essere riparato, perché chiunque sia veramente ferito o bisognoso, verrà accolto e curato.
Da questo punto di vista anche una delle scene finali, in cui il bambino “parla” con un uccellino, imitandone il verso, senza che questo venga spaventato o capisca la finzione, ha in realtà un significato profondo: esiste un linguaggio che tutti possono comprendere che è quello umano dell’accoglienza. Un’espressività che ci accomuna tutti, se solo scegliamo di assecondarla. Grazie ad essa possiamo superare gli ostacoli e le diversità linguistiche e razziali (anche i simpatici strafalcioni linguistici di Samuele mentre studia la lingua inglese).
Questi sono solo alcuni dei motivi che rendono Fuocoamamre un film importante, che centra l’obiettivo di far riflettere, senza spettacolarismi, andando all’”anima” del problema, in un’epoca in cui, forse, ci si sofferma troppo sulle parole, più che sui valori, attraverso segmenti di semplicità che illustrano la vita degli abitanti di Lampedusa , dei soccorritori e dei migranti, ripresi da una regia studiata, tutt’altro che semplice: una commistione ideale per affrontare in modo per nulla scontato un tema scottante come quello dell’immigrazione.