Di Marco Salvadego per Social Up!
Ieri l’Europa si è svegliata con un membro in meno. Contrariamente a ogni previsione, tanto dei mercati quanto dei bookmakers, il Leave ha ottenuto il 52% dei consensi contro il 48% del Remain. Quello che ne è seguito è stato, dopo attimi di sgomento, un tonfo su tutti i mercati finanziari che hanno bruciato qualcosa come 441 miliardi di euro. La giornata di ieri può essere sintetizzata con una sola parola: caos, sottolineanto dalle dimissioni del Primo Ministro Cameron, dichiarazioni di tutti i presidenti delle istituzioni europee, paura sui mercati, pericolo di ulteriori uscite di altri Paesi (Paesi bassi e Francia), Scozia e Irlanda del Nord che ora vogliono uscire dal Regno Unito, nazione che ormai di unito ha solo il nome. Verranno scritti libri su quello che si è consumato nelle urne del Regno Unito il 23 giugno, ma quello che abbiamo il dovere di fare oggi, a mente fredda, è una riflessione. La vittoria del fronte Brexit, oltre alle implicazioni economiche, impone alle Istituzioni di Bruxelles un cambio di rotta. È necessario trarre spunto da questo fallimento per modificare e rinsaldare l’unione tra gli altri Stati membri rimasti, ripartendo dai motivi che hanno spinto i Padri fondatori a creare l’UE.
L’Unione Europea vive ormai da anni una fase fondamentale del suo processo di integrazione. Ora a causa della rottura con Londra si trova di fronte a un bivio storico: scegliere se far evolvere il processo di integrazione arrivando alla creazione di uno Stato federale o retrocedere e ritornare a un libero mercato senza implicazioni politiche. Dal 2007 abbiamo assistito a spinte disgregatrici di varia natura che hanno messo in difficoltà le istituzioni di Bruxelles. La crisi dei mutui sub-prime ha destabilizzato il sistema di unione economica e monetaria, mettendo in risalto come una tale unione, oltre che di mercato, non può vivere senza un unico sistema bancario e fiscale. Per meglio reagire al pericolo di shock esterni, così come afferma il governatore di BI, Visco, sono state necessarie riforme che hanno portato ad un primo embrionale accordo sull’unione bancaria fondato sul Meccanismo Unico di risoluzione delle crisi (SRM) e sul Fondo Unico di risoluzione (SRF) che sotto il controllo e l’egida della BCE porterà gradualmente ad una unificazione del sistema bancario, anche se ancora molto lontana. Accanto a quelle di carattere economico abbiamo assistito a spinte disgregatrici di carattere politico. L’esplodere della questione migratoria dal medio-oriente e dal Magreb mette in luce come serva una gestione al vertice della crisi, non essendo politicamente accettabile che sia gestita dai singoli Stati. Le risposte a queste spinte disgregatrici non si sono fatte attendere, e oltre ad aver implementato l’unificazione bancaria Bruxelles si è resa artefice di varie aperture sia sul piano della condivisione fiscale, attraverso una embrionale unione di bilancio in programma entro il 2025, sia sul piano della flessibilità lasciata agli Stati membri. Ma viene da chiedersi se sia abbastanza, anche considerando le motivazioni che hanno spinto il Regno Unito ad andarsene.
Sono timidi segnali, certo, ma frutto di uno scontro tra diverse idee e modelli di Europa, anche molto lontani tra di loro. Ma questi modelli di Europa non coincedono con l’idea stessa di Europa, in quanto tutte queste riforme non sono altro che il frutto di un difficile e lungo processo di dialogo tra gli Stati. Di conseguenza, giudicare l’UE non vuol dire giudicare l’evoluzione di questa unione, ma significa ragionare sul perché ci siamo uniti. Se immagiamo l’UE come una relazione sentimentale, tutto risulta più chiaro: se qualcosa di questa Unione non ci aggrada lo dobbiamo cambiare. Non ci possiamo permettere di buttare via tutto.
Spinte disgregatrici economiche e politiche hanno un comune denominatore, una istanza semplicissima: la perequazione. Se si vuole far parte di uno Stato unico è necessario affrontare tali sfide come uno Stato unitario. Ci saranno sempre Paesi che “mettono di più” e Paesi che “ricevono di più”, ma non si può mantenere un comportamento bivalente a seconda della convenienza personale. Oneri e onori verrebbe da dire. In caso contrario, nel caso cioè in cui si ritenga opportuno interrompere e ripensare il processo di integrazione, così come ha dimostrato di voler fare Londra, si devono trarre le dovute conseguenze. Si dovrebbe allora ripensare il Mercato comune, il diritto, le istituzione e l’idea stessa di Stato.
Aver interrotto questo processo naturalmente rischierà di condannare il Regno Unito all’irrilevanza economica globale, con ovvie conseguenze in termini di crescita economica e sociale. Quello che gli Stati rimanenti non si possono più permettere di fare è avere un comportamento bivalente nei confronti dell’Europa, appellarci ad essa quando abbiamo bisogno di aiuto, economico o politico che sia, e prenderne le distanze quando sono altri a chiedere aiuto. Si potrebbe aprire un capitolo a parte sulle ragioni che hanno portato all’uscita dall’UE, ma alcune domande sono fondamentali: nel decidere di andarsene gli inglesi hanno pensato se un Regno Unito senza Europa sia più forte? Ma soprattutto si sono domandati perché questo processo è iniziato nel lontano 1951 con la CECA?
Per rispondere scomodiamo uno dei più grandi giuristi del nostro tempo, Giuseppe Tesauro, che nel parlare di uguaglianza ha affermato che storicamente, dietro a una Europa fatta di libero mercato e finanza, è germogliata l’Europa delle Persone, fondata sul riconoscimento di diritti inviolabili dell’uomo, il cui bagaglio di diritti è andato sommandosi a quello dei singoli Stati e che ha portato nuova aria alla tutela dei diritti individuali. Ragionare di Europa è questo: ragionare di qualcosa che aggiunge, mai toglie. Ed è con questo che dobbiamo ripartire, creare una Europa delle persone, dove la regolazione dei mercati sia solo da sfondo ad un Europa dei Popoli.